Gabriele Galloni | In che luce cadranno

di Giuseppe Martella
da In che luce cadranno (RP, 2018)


In che luce cadranno di Gabriele Galloni è una miniatura enigmatica che richiede un vero e proprio riorientamento dell’atto di lettura, inteso nel duplice senso della parola tedesca Oererterung, sia come attento esame del testo che come composizione di luogo (Ort) da parte del destinatario – poiché questo è l’ipogramma che regge la raccolta, le cui implicazioni socio-antropiche non sono state forse sufficientemente sviscerate dalla pur ottime recensioni che ha ricevuto. Dopo L’età dell’uva di Mattia Tarantino, dove il giovane poeta instaura un dialogo diretto con quest’opera dell’amico scomparso e attraverso di essa con tutti i modelli su cui ci siamo formati[1], questo di Galloni che non aveva ricevuto soverchia attenzione, esige una rilettura.

Ma andiamo per ordine: chi sono questi “morti”? Di cui qui si parla sempre in terza persona, a differenza di quanto accade nei due modelli canonici dell’epigramma funerario in versi: l’Antologia palatina e quella di Spoon River, poiché nella prima si osserva l’uso di tutte e tre le persone singolari, mentre nella seconda il defunto riassume e drammatizza sempre in prima persona i casi della propria vita in articulo mortis e in un contesto sociale ben definito come quello del villaggio puritano del Nord America, agli inizi del Novecento. Nel testo di Galloni invece le gesta (o gesticolazioni) dei morti non hanno voce, né luogo, né tempo propri ma vengono descritte da un narratore impersonale e onnisciente che conosce a mena dito il loro mondo e il nostro, e li compara ostentatamente. Tale confronto, grottesco e surreale, tra i viventi e i loro trapassati diviene dunque l’oggetto del discorso e si può ben dire che i protagonisti anonimi di queste micro-sceneggiature sono i morti viventi o i non-morti. Ombre vaganti sulla faccia della terra e nel nostro immaginario in cerca forse di una dimora, smemorati e silenziosi, sognati e sognanti, in attesa di esere richiamati in vita, di cadere in qualche fascio di luce salvifica che possa dare senso e rilievo al loro esserci stati.

Se si distingue da Spoon River per l’uso della narrazione impersonale, questo testo ne eredita però un tratto saliente: quello della fusione tipicamente anglosassone fra la pacatezza dell’elegia e la drammaticità della ballata. Vale la pena allora forse ricordare un altro testo illustre della poesia anglofona, quelle Lyrical Ballads che inaugurano il Romanticismo in Inghilterra, dove spicca la ben nota Ballata dell’antico marinaio di Coleridge, il cui tema generale è appunto “la vita nella morte” in quanto condizione esistenziale ma anche rito di passaggio, individuale e collettivo. La luce neutra, l’atmosfera magata, la voce suadente e lo sguardo magnetico dell’antico marinaio che intrattiene l’ospite di nozze (o il lettore ideale), nonché l’esortazione finale del poema ad amare tutte le creature[2], trovano un equivalente nel testo di Galloni, benché qui essi rimangano per lo più obliqui e impliciti. In entrambi i poeti, però, fatte salve le ovvie differenze di luogo e tempo, il desiderio e l’esortazione riguardano la pietas cristiana di cui in Coleridge già si avverte il declino e in Galloni si certifica la definitiva scomparsa dal mondo. Non deve sorprendere peraltro questo richiamo, seppure implicito, all’amore universale, in un poeta come Galloni, di fede e militanza cattoliche fino a pochi anni prima della morte. Nonostante che in questa come in altre sue opere egli tratteggi poi tutta una sorta di teologia negativa, grottesca o addirittura blasfema, con la la violenza, il pathos e il disincanto dell’apostata.

Come si sarà compreso, la mia ipotesi di lettura intende sottolineare la rilevanza socio-antropica del testo, malgrado le intenzioni dell’artista che avversava esplicitamente ogni impegno civile in poesia: ma il valore sia estetico che storico di un’opera oltrepassa sempre le intenzioni del suo autore. In questa prospettiva si può dire che le tre questioni maggiori del testo riguardano la metafora della luce, l’idea di comunità e l’esperienza della finitudine. Sia nella componente greca che in quella ebraico-cristiana della nostra cultura, la simbolica della luce ha avuto sempre connotazioni positive. In greco antico il concetto di luce veniva espresso dal termine phos, la cui radice corrisponde a quella del verbo phaino che significa mostrare, rendere manifesto. Si comprende dunque come la percezione luminosa sia stata da allora associata alla conoscenza e alla verità. Del resto, anche nella componente ebraico-cristiana (benché qui la luce non emani direttamente da una causa naturale quanto dall’intelletto divino) la manifestazione della luce ha avuto sempre connotati positivi. Dal fiat lux iniziale del Genesi ai ben noti passi del Paradiso dantesco, la luce appare infatti come segno della gloria divina e fonte ineffabile del pensiero umano: “Nel ciel che più della sua luce prende/ fu’ io e vidi cose che ridire/ né sa né può chi di lassù discende.” (Paradiso, I, 4-6) Tali connotazioni euforiche della luce, permangono sostanzialmente invariate almeno fino al secolo dei Lumi, per venire poi messe in questione, già a partire dal criticismo kantiano e dalle varie versioni sia dell’idealismo che del positivismo dell’Ottocento. E’ però solo agli inizi del Novecento che la fenomenologia di Husserl e specialmente l’ermeneutica di Heidegger vi introducono alcuni “adombramenti” decisivi. Con il concetto chiave della Lichtung (slargo, radura, schiarita), che Heidegger lega alla semantica della parola greca alétheia, intesa come svelamento, rivelazione, sottrazione alla latenza, l’origine della conoscenza non viene più infatti associata alla luce piena quanto piuttosto al gioco di luce e ombra, mentre l’esperienza della verità viene concepita come un evento inatteso e transitorio. In altri termini, al costante splendore platonico del “Bello che è buono” (kalokagathos), subentra un ambiguo chiaroscuro dell’esserci come condizione di ogni ermeneutica esistenziale. Nel concetto heideggeriano della Lichtung infatti la metafisica della luce segna il suo primo, radicale punto di inflessione in direzione dell’ombra. Si riesuma così in chiave filosofica quella lotta di luce e tenebre che caratterizzava già le cosmogonie antiche, depotenziando decisamente la luce come vettore di verità.

Questo cambio di segno nella metaforica della luce caratterizza l’atmosfera di tutti i testi di Galloni, da Slittamenti a L’estate del mondo[3], e viene spesso anche messo a tema come capita nella plaquette di cui ci stiamo occupando, tutta pervasa com’è da una luce limbica dove si profilano le ombre gesticolanti dei morti-viventi, nella loro attesa “delle coordinate per un’altra vita” (10), o “della voce che verrà data loro/ in dono” (18) in una escatologica resurrezione dello spirito e della carne, perché “un corpo morto non è abbandonato” mai e “un giorno tornerà/ alla vita e avrà voce di Creatore” (20): quando “i morti rientreranno nudi nelle/ loro città” e noi, in un estremo gesto di carità cristiana, “li vestiremo” affinché “il freddo non li atterrisca” (22). La metafora della luce appare dunque qui legata ai temi portanti della comunità-comunione dei vivi e dei morti, della tradizione della Parola, della cristiana resurrezione della carne. Questo è un primo tratto essenziale della ontologia immanente alla poetica di Galloni. Ma bisogna subito aggiungere che il cambiamento di segno di questa metafora comporta anche una inversione del senso del tempo nel genere letterario dell’elegia, perché se mai qui permane nostalgia alcuna, si tratta di nostalgia del futuro come ci indica il titolo: “In che luce cadranno”. Ma si tratta poi anche di una mutazione radicale nelle figure della Caduta e dell’Apoteosi, topoi cardine della storia sacra e della liturgia cristiana. Basti pensare all’episodio dell’ascensione in cielo di Elia su un carro di fuoco, figura dell’Antico Testamento che anticipa la resurrezione di Cristo nei Vangeli. Al contrario, nella storia sacra, il tema della Caduta, dal Genesi all’Apocalisse, è stato invece sempre associato alle tenebre.

Il titolo, “In che luce cadranno” indica dunque il tenore essenziale della parola poetica e della sua tradizione: esso ci suggerisce anzitutto che le gesta di questi morti smemorati vengono evocate nella prospettiva dell’attesa, sia alla luce della escatologia cristiana che in quella del mito orfico della reincarnazione, di cui l’oblio delle vite precedenti è una componente indispensabile: così, nel nostro testo, i morti “ogni notte ritornano e dimenticano” (24) e questa loro amnesia fa tutt’uno con la reticenza nei nostri confronti, perché essi “faticano/ a rispondere a tutte le domande” e piuttosto “preferiscono/ ricordarsi di un nome,/ scomporlo in sillabe, accorgersi che è il loro.” (16) Perché se non è possibile la comunione tra i vivi e i morti, la condivisione dei ricordi e delle speranze, ciò che rimane è solo il recupero mnestico del nome proprio, attraverso la sua scansione sillabica, intesa come condizione poetica residuale di ogni possibile communitas nella carne e nello spirito. Metempsicosi e resurrezione cristiana vengono dunque coinvolte nel medesimo rovesciamento della “caduta nella luce”, come viene riassunto in una domanda cruciale del nostro testo: “in che luce cadranno/ tornati alle cellule.” (27)

Il secondo grande tema della silloge, come si è già notato di passaggio, è la difficoltà della comunicazione e della comunità fra i vivi e i morti, o anche fra questi morti-viventi tra di loro. Tale difficoltà appare significativamente connessa alla inanità del dono gratuito (il munus latino che sta alla base del concetto di communitas), nonché dell’amore sia nel senso greco dell’eros che in quello cristiano dell’agape. Già all’inizio della silloge leggiamo infatti: “I morti tentano di consolarci/ ma il loro tentativo è incomprensibile:/ sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile della conversazione.” (9) Sul loro desiderio di comunità e di condivisione non sussiste però alcun dubbio: essi “ci porgono le offerte che in virtù/ di trapasso donarono gli amici” (33) e “scrivono/ infinite missive d’amore”, attendendo una risposta. (34) Tentano insomma di fungere da lari familiari e di consolare “l’inquieta/ vastità della casa” (35), di proteggere la “carne domestica” (36), in un patetico e grottesco, incestuoso e solipsistico rituale di comunione in carne e spirito: “Ogni defunto è il santo/ patrono di se stesso./ E’ un cero la sua chiesa;/ e il suo altare il sesso/ di un parente amorevole.”(37) Tale familiarità e comunione andate a male, riappaiono poi nella inefficacia delle nozze sacre fra i morti (“Giorno di Venere; i morti si sposano”: 43), destinati a una immediata separazione (“Giorno di Marte; i morti si separano”: 44), facendo ciò tutt’uno con il dispendio inevitabile dei doni: “i fiori vengono/ distribuiti ai passanti del caso” (44) e infine con la futile ricerca del senso d’esserci, che si svolge in tutti i luoghi di passaggio: “in chissà quante estati, in chissà quanti/ alberghi, marciapiedi, lungomari”, (45) nell’imminenza del ciclico ritorno alla polvere.

Il terzo cambiamento epocale di cui questa raccolta reca traccia, riguarda la stessa temporalità dell’esserci in quanto esser gettati nel mondo e progettanti in vista della propria fine (Heidegger). In altri termini, riguarda l’ermeneutica della finitudine e la concezione dell’esperienza a partire dal limite insuperabile della morte. L’esplorazione dei confini è d’altronde uno dei tratti caratteristici della poesia di Galloni in generale, ma qui viene declinata in particolare come rapporto tra vita e morte, luce ed ombra, veglia e sogno. Dei primi due abbiamo già detto, rimane da fare qualche ulteriore osservazione sull’indistinzione fra sogno e veglia che caratterizza appunto il quotidiano onirico e grottesco di queste tranches de vie. Perché dall’inizio alla fine, queste ombre animate appaiono sognate-sognanti in uno spazio nel contempo domestico e perturbante (Unheimlich) e ciò viene messo a tema nell’atto di una mutua espropriazione tra i vivi e i morti, che si svolge prima ancora che sul piano delle immagini, su quello della dizione, dove al tono neutro e scarno adottato dall’io poetico, corrisponde (come in un rilancio infinito della posta in gioco) l’afasia e la reticenza dei morti sognanti, intenti al loro severo, surreale apprendistato di ectoplasmi o simulacri: “Per sei mesi sono semplici/ ematomi; poi superfici lisce./ E se divengono quel che già sono/ è solo merito loro (non scivolano).” (26) O piuttosto appaiono indaffarati in amene, futili pratiche, come quella di filmarsi a vicenda e bloccare “più volte/ il video per capire se la pelle/ del compagno è la loro stessa pelle.” (28) Una esplorazione epidermica dell’identità e una resa onirica della difficoltà del processo di individuazione, che appare poi in un passo successivo come il tentativo di iscriversi all’anagrafe del mondo, lasciando traccia della propria semi-vita su un supporto organico in via di decomposizione: “i morti sognano; certo che sognano./ Scrivono i loro sogni quando sfuma/ la cartilagine.” (38) Un ultimo, letale giro di vite all’ermeneutica postmoderna dell’iscrizione e della traccia, ormai divenuta palesemente postumana. Oppure nel girotondo surreale, che ha tutti i tratti del rito apotropaico, in cui questi morti appaiono intenti a soffiare dentro un “flauto d’osso” che “tra pochi giorni ritornerà cenere/ e i morti se lo soffieranno addosso/ correndo intorno a un lumicino blu” (41): figura di una residua speranza messianica che anima questi morti-viventi, sognati-sognanti, lunari e lunatici, e della loro fede in una divinità assente, cui pure continuano a fare offerte propiziatorie, grattando fino in fondo l’intonaco delle proprie dimore (per lasciare qualche segno del loro passaggio) e avendolo raccolto in piatti di legno, “ciechi lo offrono alla luna/ sempre distratta” (42), benché abbiano da tempo imparato a percepirla come un inganno del desiderio o come “uno sgarbo del creato”. Una luna che funge qui da figura sia della distrazione di dio che dell’estinzione dell’eros: “I morti guardano alla luna come/ un errore, uno sgarbo del creato;/ pensano infatti che sia cosa messa/ lì per illuderli (non percorribile)./ L’imitazione di un antico sesso/ senza ingresso né uscita né sala/ d’attesa.” (21) Un eros che ormai si è oniricamente ridotto a mera pornografia, per l’eccessiva prossimità dello sguardo all’oggetto del desiderio nell’eterno show business e nell’allucinazione collettiva della Realtà Virtuale: “La pornografia dei morti/ è un vuoto di finestra, un passo/ tra la veranda e il giardino. È quello/ che noi sogniamo tutto il pomeriggio.” (32)

Giunti alla fine del nostro percorso, quando leggiamo che “la musica dei morti è il contrappunto/ dei passi sulla terra” (46), veniamo perciò ricondotti all’inizio, dove i morti vengono definiti come “l’indicibile/ della conversazione”, e il cerchio si chiude, o meglio si riapre nella spirale di un infinito rimando che fa tutt’uno con la nostra temporalità immanente e con la nostra indicibile mortalità. Allora si comprende che questi morti viventi sono l’esatto riflesso speculare di noi morituri – che ciascuna di queste animazioni, come le strisce di un fumetto metafisico, è la stazione di una via crucis ermeneutica che ci conduce al momento cruciale della storia, sacra e profana, individuale e collettiva: il momento della scelta, che qui appare però significativamente preclusa, nel riflesso della luce neutra o lunare che pervade tutta la vicenda, dove sogno e realtà sono già sempre confusi nell’allucinazione collettiva che tutti ci riguarda, nella nuova matrice del nostro immaginario, nella congiunzione di tempo reale e realtà virtuale, nella processione dei simulacri del sé, nell’indistinzione del Reale, dell’Immaginario e del Simbolico, che caratterizzano la nostra epoca. E allora forse si può iniziare davvero a comprendere il senso di queste istantanee in attesa di montaggio, didascalie del mondo sospese sul silenzio, frammenti muti di un dramma incompiuto, manifestazioni che non sono teofanie né epifanie (rivelazioni improvvise di qualche verità), ma piuttosto “orazioni, riti brevi” (come osserva Antonio Bux nella prefazione) o meglio ancora epicleti (invocazioni alla discesa dello spirito santo nel rito eucaristico), in un senso analogo a quello in cui il giovane Joyce ebbe a definire quelle sue annotazioni lirico-drammatiche sulla “paralisi di una città”, che sarebbero presto entrate a far parte di Gente di Dublino e del Ritratto dell’artista da giovane. L’elemento della preghiera muta, tutta risolta nel gesto, attraversa infatti questa silloge di Galloni, compiendo la reciprocità di parola e pausa, e facendo sì che ogni verso, ogni sillaba, ci appaiano come sospesi su abissi di silenzio, preghiere ammutolite in partenza sulla bocca del poeta e dei suoi portavoce. Suppliche per una improbabile comunicazione fra i vivi e i morti (che si risolve in gesti tanto cadenzati quanto inani), alludendo fra l’altro a una cesura epocale della nostra civiltà letteraria, all’esplosione della galassia di Gutenberg in una miriade di schegge luminose, atomi e bits, disseminate nei nuovi media, processate dai motori di ricerca e archiviate nelle banche dati, in codici che in fondo non sono più verbali ma numerici. Sicché la poesia sarà forse sempre più legata alla musica che alla letteratura. In questo senso, “i lapsus, gli inciampi, l’indicibile/ della conversazione”, (9) riappaiono alla fine del nostro testo come “il contrappunto dei passi sulla terra”, (46) la musica dei morti.

Mentre la voce di questo “erede della tradizione lirica”, nel suo caratteristico tono neutro e tempo andante, appare irreversibilmente “rimediata”, cioè passata al vaglio dei nuovi media e intrisa di quella oralità di ritorno che li caratterizza, come del resto è da attendersi da un nativo digitale e blogger esperto della propria messa in scena, che attraverso queste “orazioni” si fa testimone del dramma della sua generazione che è quello di dover attraversare “il mar rosso” che divide due epoche della nostra civiltà. In questi epigrammi e minidrammi, si mette infatti in scena la crisi dell’esserci nell’era del trapasso fra due diversi regimi della comunicazione e della comunità umane. Il trovarsi gettati nella luce neutra e artificiale di una nuova matrice del visibile e del dicibile. Ma se da un lato la testimonianza poetica di Galloni si rivolge anzitutto alla sua generazione e da essa attende risposta, dall’altro questi morti-viventi, smorfie oniriche dei morituri, siamo tutti noi, glosse a margine del libro del mondo e didascalie del film della vita.


[1] Vedi la mia recensione su Atelier Poesia, 14 Gennaio 2022: L’ombra lunga dei morti: Mattia Tarantino, L’età dell’uva, Giulio Perrone, 2021.

[2] “Prega bene colui che bene ama,/ sia l’uomo che l’uccello e la bestia”.

[3] Vedi a tal proposito diversi miei vari interventi su Blog Rai News.

1 Comment

Rispondi