Gianni Ruscio | Mutazioni

di Francesco Terracciano
su Mutazioni (Terra d’ulivi, 2022)


Terribilis est locus iste. Hic domus Dei. Est Porta Coeli: è il passo della Bibbia, il Genesi XVIII 10-17, in cui viene narrato il sogno di Giacobbe, la visione della scala che poggia sulla terra e raggiunge il cielo, lo spavento e il timore del Patriarca che, al risveglio, si rende conto di quanto sia terribile il luogo, di come sia possibile accedere per il suo tramite  alla casa di Dio, e di quanto si sia trovato vicino alla porta del cielo; tanto vicino da rendere necessario un atto di ri-creazione che passa per la parola, ri-nominare il luogo chiamandolo Bethel, assegnandogli un altro significato rispetto al nome precedente di Luz. Il passo appena descritto, che possiamo considerare importante anche per identificare la natura dei siti in cui la dimensione umana e divina sembrano avvicinarsi e unirsi, in cui possono avvenire pratiche dall’esito imprevedibile, è stato spesso associato, tra altri luoghi ed edifici sacri, alla chiesa di Rennes-le-Château, e quindi alla Maddalena che appare in esergo nel libro di Gianni Ruscio, Mutazioni, edito di recente da Terra d’Ulivi. La Bibbia, dice Anna Porczyk nell’agile saggio Letteratura e Sacre Scritture, è una sterminata raccolta di narrazioni e di miti, di metafore e di generi, un codice in grado di parlare a destinatari sempre più lontani, nel tempo e nello spazio, mantenendo intatta la capacità di affascinare: “La presenza delle Sacre Scritture, benché a volte silenziosa e implicita, è talmente capillare da potersi considerare un enorme ipotesto dell’intera letteratura dall’antichità fino all’epoca moderna”. Non a caso, con le Biblische Betrachtungen, Georg Hamann instaura un rapporto di analogia fra l’interpretazione della Bibbia come prolungamento dell’atto poetico che le ha dato origine e la scrittura poetica come testimonianza della presenza nel linguaggio profano della parola divina sub contraria specie. Tra questi τόποι, nel lungo elenco dei riferimenti che possiamo richiamare, il mondo ha fantasticato a lungo su Maria di Màgdala e il suo rapporto con Gesù: numerose leggende e testi dall’autenticità dubbia suggeriscono che la Maddalena sia stata compagna di Gesù, in un modo più vicino a quello che oggi intenderemmo come rapporto privilegiato, confidenziale, se non addirittura di coppia. Se questo fosse vero, dovremmo riconoscerle un carattere primario in quella parte della storia di Gesù non narrata -ammesso che sia esistita, che abbia avuto luogo. È un terreno assai scivoloso. Più che i vangeli apocrifi e i frammenti di incerta attribuzione, come il cosiddetto «Vangelo di Filippo» che descriverebbe, ai versetti 63,33-36, il bacio tra Maria e il Nazareno e quindi l’esistenza di una relazione particolare tra Gesù e la stessa, sembra accettato che Maddalena abbia ricevuto da Cristo una rivelazione che agli altri non era stata fatta. Osserva Darrell L. Bock: «Maria (Maddalena) era inquieta e ferita dalla sfida di Pietro, ma Levi (probabilmente identificabile con Matteo) giunge a difenderla: il Signore ha scelto lei per questo ruolo specifico; l’ha resa degna e inoltre la conosceva bene. L’implicazione è che Gesù la conosceva abbastanza bene da sapere se fosse degna di ricevere una rivelazione autonoma. Da quella conoscenza derivava lo straordinario amore di Gesù: nessun richiamo a legami familiari. Maria era semplicemente beneficiaria di una speciale rivelazione da parte di Gesù. Il testo non indica nient’altro, tranne che Gesù apparve solo a lei». Gli apocrifi gnostici, scritti un paio di secoli dopo Gesù, non raccontano di una relazione  particolare tra Cristo e la Maddalena, ma accennano a un bacio confuso, carico di significati simbolici (nessun riferimento alla passione o all’amore), e di un dissidio tra i primi discepoli per una «rivelazione» che Gesù avrebbe destinato alla comprensione di lei e non agli altri seguaci. Non ci sono fonti antiche che raccontino una storia diversa, ma il punto sembra essere l’argomento di quel colloquio, il segreto che nessuno doveva apprendere. Lasciando da parte il campo teologico, sembra che Gianni Ruscio, nel porre in esergo Maria Maddalena, abbia voluto chiamarla come giudice delle miserie umane, affidarsi a uno sguardo non addomesticato dall’amore o dalla fede (che appaiono smarriti o persi proprio per quella rivelazione)  con il quale ciascuno di noi viene esaminato a brani, a lacerti, come un animale dalle sembianze poco nobili:

Mortale indigesta e sottovalutata
la grazia – lama – del coltello nella mano
del macellaio. Prende pezzi di noi
che poi lavora con una tecnica
precisa e da manuale. Sui libri
di scuola non c’era scritto
cosa se ne sarebbe dovuto fare
col peso dell’umana mattanza.

Per quanto gli antichi santuari e i luoghi sacri possano suggerire -nascosti nei dettagli architettonici, nei simboli alchemici dei monumenti o dei quadri- informazioni preziose su quella unione mistica e sulla conseguente storia dell’umanità non narrata, sulle modalità con cui è possibile accedere a una dimensione superiore e di conseguenza al legame uomo-dio, spirito e materia, Ruscio sembra piuttosto concentrato sulla fase successiva in cui la Storia non esiste più (aveva già tentato, nelle precedenti raccolte, di sancire l’allontanamento dalla Storia), in cui saremo chiamati a un giudizio particolare più che universale, già oltre una redenzione che abbia mancato di produrre effetti:  

Anche noi saremo
(messi a nudo
davanti a un gancio e a una
affettatrice
davanti alla bilancia
cristica di nostra Signora)
quarti di corpo
– incisi strappati disossati –
fette di pancia girelli
controfiletti filetti lombate
costate fracoste interiora che non saranno
mai a sufficienza libere
di esser nutrimento per la scatola
buia e vuota della nostra coscienza.
Saranno le nostre viscere
in eterna decomposizione
sul quadro della pelle
a farci sussultare.

E ancora:

Accuratamente
disposti sul bancone
di una macelleria
– fotografia su un ultimo sorriso contrito –
potremo sdraiarci accanto
alle teste dell’agnello
dalle orbite prive di vita
accanto ai torsi privi di arti
e ritagliati ad arte
per essere sacrificati
nei nostri giorni rituali.

La dicitura ebraica Beth El, la casa di Dio. Torno alle montagne sacre del sogno di Giacobbe, alla pietra usata come cuscino, alla scala e agli angeli, poiché in quel luogo -che corrisponde a un luogo fisico, ma anche a uno stato di percezione altro– si è compiuta una manifestazione divina. Secondo alcune testimonianze, manifestazioni di forze sovrumane sono avvenute e avvengono ancora, di notte, in alcuni santuari. Ma perché tali manifestazioni divine sono da considerarsi terribili? Terribilis, in latino, significa sia spaventoso che venerabile. La traduzione potrebbe essere “questo luogo è venerabile”, o “questo luogo è spaventoso”. Il latino, lingua sacra per eccellenza, riesce a rendere con una sola parola l’idea della doppia possibilità che non implica scelta ma anche della necessità che ogni dualità, anche questa, sia racchiusa in un principio unico. Inoltre, il latino sottolinea i due elementi principali del sacro, la luce e il buio, la conoscenza e l’ignoranza. Se c’è una via tra la terra e il cielo, se c’è una scala alla cui estremità si ha la purezza al suo massimo grado, c’è una regione intermedia che va abbassandosi al quotidiano, al profano, fino a raggiungere l’estremità terragna dove accadono le cose più terribili, magari impure. Se ne deduce che esiste una sorta di potere magico legato alle due estremità e che l’estremità pura non può essere violata dal sacrilegio, ma deve tenerne conto. In quei luoghi in cui il sacrilegio è possibile, Ruscio si avvicina -a contrario- con un senso del sacro che si trova al di là della confessione e della fede religiosa, che a queste ultime non reca oltraggio né scandalo, ma pianta saldamente nel cuore delle loro costruzioni teologiche lo σκάνδαλον, la pietra che, in greco, costituisce un impedimento, un ostacolo al passo, e che forse proprio per questo lo rende più consapevole e giusto. Ruscio disegna un rapporto personale, intimo, tra vita e scrittura, ma soprattutto insiste sulla condizione di disastro dell’essere umano, motivo presente ne L’écriture du désastre di Maurice Blanchot, nella rappresentazione fitta di rimandi che illumina morte e sacrificio, dono e condanna, per richiamarle alla categoria assoluta del linguaggio e delle sue possibili declinazioni, individuando nei passaggi obbligati della vita la ragione prima della scrittura, lo strumento che chiede di noi e ci connota, il violento, irragionevole supplizio della vita stessa. Una sciagura che non può manifestarsi diversamente che attraverso una scrittura solcata, ridotta in piccoli pezzi, che esprime lo stupore doloroso dell’hic et nunc, l’assenza di ogni possibile spiegazione o senso, che supera al nastro d’arrivo anche le categorie confortanti della linearità e dell’unità.

Scaturisca dal seno
il verbo del senso
suggelli nella macellazione
il nostro nome.

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