Federico Morando | Senza motivo apparente

cura e introduzione di Lorenzo Fava


Ricevo “Senza motivo apparente” di Federico Morando. Leggo. In un ragazzo che è pressappoco mio coetaneo trovo una pacatezza del dettato che raramente è propria di un giovane. Come ogni volta che approccio dei testi di un autore mai letto, cerco di captarne lo schema di assonanze, capire cosa rimi con cosa, provo a definire l’impalcatura sopra la quale un discorso poetico deve reggersi. Trovo linee di forza, nell’intelaiatura fonetica delle pagine, tipica di qualcuno che sa come “dire” ed ha coscienza che esprimendosi con versi liberi la conoscenza della metrica è ancor più importante rispetto all’espressione di una forma chiusa: non si hanno sentieri da seguire, né sistemi di suono a cui far riferimento. Nei testi di Federico ho l’impressione di ascoltare una confessione, degli scritti fatti per essere ascoltati come sussurri, la sembianza di un monologo che lascia sempre qualcosa di non detto, un centro attorno al quale il discorso gravita senza mai esplicitarne le coordinate. “Il mondo era un nome buono da dire. / Nel piatto a cena non lasciavo nulla, / raccoglievo le briciole col dito / ignaro di sfiorare l’infinito.” Siamo, chiunque siamo, seguiti di un passato che solo la scrittura può raccontare. “Servirà […] riorganizzare la salvezza /[…] riesumare le forme, / il secondo nome dell’amore.” Quello del nominare le cose, indicarle senza mai riuscire in alcun modo a trovarne il centro esatto è in qualche maniera una delle urgenze che alla poesia di Federico preme esprimere. L’occasione della scrittura nella sezione “Per dedicarti un segno” é la presenza di un amore che spinge a voltarsi: “arrivare in fondo – guardare indietro: / restituire al mondo un dispetto / mentre ammicchi da sotto il berretto.”

“Cerco risposta / oltre l’ultima vela, / dove gli occhi rimboccano il cielo / per dare un senso / a ciò che resta, un posto / alla scomparsa.” Questo primo testo del libro fornisce già una dichiarazione, se non di poetica, almeno di come la poesia si declini nell’esistenza dell’autore: l’inchiostro tenuto vivo dal “senso” che latita, un “posto alla scomparsa” che sembra non trovarsi. Da qui prende piede questo corpus di testi di cui credo la massima peculiarità sia l’intento, che avverto sincero, di sistemare una vita, in un certo senso fare con lei i conti per provare a colmare la distanza fra quello che è Io è quello che è Altro. “La mia voce non esplode mai”, dice il poeta in maniera esplicita, ma cerca freneticamente un qualcosa che possa definire la realtà, la parola che arrivi, che non sia fraintendibile, e che in effetti “Rotola nel cranio, rimbalza negli occhi, / discute le cellule, i piani del giorno, / cammina nell’osso e non fa ritorno. Mi chiamo per nome / e non mi riconosco. La lingua si ritorce contro”. Non è forse il conflitto con la lingua stessa uno degli argomenti di molta della migliore tradizione? Se l’espressione “Non chiederci la parola”, di memoria montaliana, che sancisce effettivamente l’impossibilità di trovare una formula esatta e definitiva per l’arte poetica è ancora valida, credo che quello di Federico Morando sia un tentativo di ricucire lo strappo fra l’esperienza strettamente personale e ciò che invece è comune a tutti gli uomini, che va apprezzato, oltre che per la forma propria di chi ha gli strumenti linguistici ed esistenziali per affrontare la ricerca, anche per la sua – mai scontata – sincerità di base.



Cerco risposta
oltre l’ultima vela,
dove gli occhi rimboccano il cielo
per dare un senso
a ciò che resta, un posto
alla scomparsa.

*

La mia voce non esplode mai.
Rotola nel cranio, rimbalza negli occhi,
discute le cellule, i piani del giorno,
cammina nell’osso e non fa ritorno.
Mi chiamo per nome
e non mi riconosco.
La lingua mi si ritorce contro.
Ed è per questo forse che piango
nel porticato della meraviglia:
sentire e non poter riferire,
limitarmi al confine delle ciglia.

*

La notte sgocciola
dalle grondaie brunite.

Il vetro di un barattolo reclama
il lume di qualche lucciola.

Non so più come si faccia
a catturare una magia così piccola.

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