Città del testo #2 | Un quartiere dell’alta borghesia

a cura di Riccardo Canaletti


Siamo di fronte a una strada pulita, un vialotto svizzero o di quelle città americane che si sviluppano lungo una collina che porta al mare. Siamo nel quartiere residenziale, dove alberga il godimento.

La poesia ha casa anche qui. Spesso ci troviamo ad ammirare i bassifondi, la lugubre vivacità della decadenza. Ci immedesimiamo intorno a questo fare poesia attraverso il dolore, gli odori forti, una contro-ideologia dei tempi a venire, ovvero uno schema alternativo allo schema coerente con la direzione che il mondo sta prendendo: direzione, sembrerebbe sempre più rosea economicamente. Abbiamo questo modo di rifare il letto ai poveri con i nostri versi, convincendoci che così staranno meglio. Non è così. Per ogni grande poeta che ha vissuto quei quartieri, dieci poeti lo imitano senza ispirazione e mancano di rispetto proprio a quei poveri di cui vorrebbero essere portavoce. Questo è un momento di gravi perdite, Biancamaria Frabotta, Ivano Ferrari. Ognuno attaccato alla propria forma di vita. Non si immedesimavano negli altri, quasi che la poesia dovesse comunicare empatia attraverso l’egoismo: io ti sono vicino perché sono io. Allora si sgretola l’ideologia, che non è il credo politico di qualcuno, ma lo schema teorico (religioso) di molti, quasi tutti. È ideologia la frustrazione quotidiana dei critici verso la letteratura commerciale; è ideologia il rifiuto dell’io e di ogni altro soggetto nei propri versi “perché non si fa più”; è ideologia spezzare una lancia in favore della povertà invece che contro di essa e a favore dei poveri; è ideologia mentire per essere letti.

Ecco l’obiettivo. Sgretolare l’ideologia ed essere onesti rispetto alla propria cultura e posizione nel mondo. Io non appartengo certo all’alta borghesia, ma non sono povero. Non sono certo un doppiamente laureato ad Harvard, ma non sono un analfabeta. Il mio quartiere umano e caratteriale è – almeno – da alta borghesia. Sono in quel vialotto col mio cane, la mia ragazza è a casa, nella casa che spero di poterle donare. La mia poesia cammina con me, fa jogging al tramonto, tira su la serranda del garage, prova pace mentre si stappa una birra tra vicini ricchi (e riccamente vestiti delle loro tute, perché i ricchi fanno jogging tutti alla stessa ora). Una pace inconsolabile, una pace che ha voglia di pace.

Una poesia che si nutre di decoro urbano, nella mia città del testo, perché non voglio mentire a nessuno. Vorrei che si avesse il coraggio di dire che non tutti arriviamo dal fondo del fondo di un buco lasciato all’oscuro dal resto della società, che non tutti soffriamo sempre. Io sto bene. Voglio dirlo. E se voglio dirlo in poesia, devo. La mia città non ha quartieri poveri. La mia poesia è serena.

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