Alfredo Rienzi | Sull’improvviso

a cura di Paolo Pera
per Sull’improvviso (Arcipelago Itaca, 2021


La più recente opera di Alfredo Rienzi, Sull’improvviso (Arcipelago Itaca Edizioni, 2021), è – a parere dello scrivente – la più divulgativa rappresentazione del pensiero poetante del Nostro, nonché una sorta di breve narrazione su come questo pensiero in esso sorse e si stagliò. Ricordiamo per esempio i versi che aprono la prima sezione del libro, La comprensione del lampo: «A cosa serve un albero? / a dieci anni solo a una cosa: / essere arrampicato», parliamo forse di una vita che deve essere sfidata, ascesa? In qualche modo, però, in questa “vita” «entrerà nell’occipite / il fulmine». Che sia la comprensione stessa questo fulmine che squarcia l’albero? Fulmine che dà comprensione di qualcosa? Della morte che la vita segue quale probabile Vita? Degli abitatori (custodi ed invasori?) che stanno intorno alla nostra vita in forma visibile e no? Ebbene, in questa vita, in questo albero, la comprensione è entrata irrimediabilmente. Fuori dalla sapienza non si potrà andare! Rienzi esibisce – rispetto a questa vita trapassata dal fulmine – una sorta di debolismo poetico, l’immagine di un “esserci tarlato” si presenta difatti nelle prime battute dell’opera («[…] la vita è stata / per frammenti, per scie / piena di cavità anch’essa»), qui insomma – sempre in questa vita, s’intende – siamo di fronte a un’esistenza meditabonda («Era pietra e meditava») che scorge frammenti d’essenza durante le sue “passeggiate metafisiche” naturali o urbane, essenza sempre più celata. Vita che sa bene di non avere verità, e che quelle essenze intraviste di Verità non parlano ma semmai rimandano all’estrema e infinita contingenza del Tutto («[…] abbiate cura delle unità / di misura. Abbiatene pietà»). L’io del poeta dice di sé quasi sempre in terza persona o tramite personaggi, forse per allontanare sé stesso da sé, impresa lodevole oggidì; altrimenti lascia sentenze alla mente del lettore («[…] la calma angolare ci ammaestrerà»), sentenze che dànno comunque un’immagine riflessa del Poeta. Rienzi sembra suggerire che l’Uomo altro non sia che la propria morte, e quindi la propria vita? «Sono il punto sul bordo / della pagina, non il sostantivo / o il tratto rosso spesso / che lo sottolinea, non la chiosa / il punto». Un elemento interessa particolarmente lo scrivente, ossia la rilevanza data all’involucro che questa vita trapassata dal fulmine lascerà arrivando a essere punto: «Ci fu un problema di carne e sangue / che s’ostinava a volgere in acqua / e da questa in aria / (sostanza sorellastra del nulla)»; di questo corpo, quest’involucro, si può dire giusto che «Non fu / e nessuno ne seppe» poiché “nulla d’occasione” e quindi «voce intermedia tra l’aria e l’acqua / (un vapore, direbbe l’ermetista)». Ogni tentativo di rendere l’esistenza di questo “nulla” qualcosa di glorioso («[…] trovò una fessura per emergere / ruotare, issarsi a nera gioia / farsi e disfare») è solo un modo per polverizzarsi meglio, e le vie del vivere altro non sono che «fango da fango» poiché «[…] l’illusione dopo averci / partorito scansando ogni dolore / si ritrasse come schiuma alla riva / depositate conchiglie e carcasse». In qualche modo, per dare un’interpretazione del titolo, si potrebbe far riferimento a questo distico: «Così, come un improvviso niente / un respiro, la vita», il niente che il “nulla” ha vissuto è il luogo dell’improvviso, balenio prolungato di visione amplificata. Tale visione, tale accesso alla “Verità”, che, usando il dizionario rienziano, potremmo chiamare sesta o settima grandezza – citando pure la seconda e ultima sezione del libro –, sebbene alonata dall’impossibilità umana svela al Poeta tutte le “voci che non vestono corpo”, tutti quegli “improvvisi” che sono piccole ascensioni dello spirito, ascensioni rattenute però dal mefistofelico fango della vanità; è dunque così che l’albero che il subitaneo fulmine rese sapiente, e che lacerò vita natural durante, rimase infine diviso tra l’ambizione allo svanire fra le moltitudini di «alfabeti brevi e indimostrati» e il desiderio del fango che, per quanto empio, non smette di rimanere quel poco di scomposta emozione presente nella vita mondana. Questa divisione infine strappa davvero il Poeta sino a renderlo non più un’anima tarlata ma, peggio, «come cavità nell’albero».

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