Lorenzo Pataro | Amuleti

introduzione di Elio Pecora
da Amuleti (Ensemble, 2022)


Di una raccolta di componimenti in versi si può affermare che abbia raggiunto o toccato la poesia – che, nell’attuale moltitudine di versificatori, appare come un uccello assai raro – quando ci si trova dentro un’opera mossa da una sua necessità ed espressa con strumenti saldi e affinati. E gli strumenti non possono che essere quelli di una lingua posseduta e anzitutto sentita, e quelli di una visione di sé e del mondo che quel sé contiene e comprende. Questo libro di Lorenzo Pataro possiede qualità e forze e umori. Il territorio, nel quale l’autore si cerca e si palesa, appartiene a un altrove che ingloba l’umano, ma non lo isola e restringe. Il titolo Amuleti fa pensare agli amuleti montaliani, a oggetti e soggetti che modulano i significanti ed estendono i significati. Nell’epigrafe di Gianni Celati – una delle tre che aprono il libro e sono indubbiamente mappe per un tragitto da compiere – si dice di parole che “chiamano qualcosa perché resti con noi”. Quel che resta qui di una fitta elencazione di luoghi, oggetti, animali, piante, stagioni è insieme vigilanza e stupore, attesa trepida e insopprimibile desiderio di essere e di restare. E se della negazione e del dubbio, in cui è stato immerso e sommerso il Novecento, persistono qui le ombre e gli appigli, se una irreparabile scontentezza sta dietro gli avvii e le soste di tanto chiamare ed evocare, mai s’accampa una definitiva rinuncia alla felicità, mai si cede a un’estrema invalicabile negazione. Tutto – in questo continente di parole, di frasi, di cadenze – si avvolge in un ritmo denso e pacato. Il verso, che propende all’endecasillabo, ne esce per acclimatarsi in chiare e libere cadenze. Tutto si presenta come composto di un’uguale sostanza, eludendo ogni separatezza, trovando segrete ragioni in una confidenza e in una prossimità che sfociano in una cercata alleanza. “Gettati in un nome verso un nome” uomini, cose, elementi sfuggono a “l’inganno consueto” del reale anche solo nominandosi. E saremmo a un niente nuovamente acclarato se ogni immagine e percezione e sentimento non fossero espressi con una tenerezza che è pure nostalgia di un esistere senza confini e stretture. Ma se tutto è parola, e qui Wittgenstein impera, e se ogni materia ha respiro, cammino, sogno, pure in questo sogno e con le parole accolte e convocate noi seguitiamo a chiamare la vita e ad abitarla, e di ogni parola facciamo un talismano che apre porte, disegna mappe, appronta percorsi. Può l’umano sfuggire al tedio, alla disperazione, anche alla paura e alla fallibilità dell’attesa, cercandosi fino a dimenticarsi, nella molteplicità? Lorenzo Pataro s’inventa un inizio quando scrive e intona: «In principio fu la condanna beata / dell’insonnia a tenerci vigili all’arrivo / della felicità, fu un ago nel cuscino / la scoperta che non eravamo noi / i dormienti scelti.» Ne viene un’ulteriore domanda: «Può la poesia contare su reami di parole per uscire dal labirinto convulso di quel che chiamiamo realtà?» E non è forse quel che da millenni si pone come dono e fatica la poesia?


Potremmo dirci salvi soltanto
tra il freddo delle mura nella casa
di campagna, nell’aperto grido dello spazio

salvi soltanto nel vecchio pagliaio
diroccato incontro alle tele impolverate

nella luce sotto il melo o fra le tegole
spostate, umidi sui greppi o tra le fronde
pronti a gettarci come semi nella terra

salvi come scarti – come la scorza del frutto
spellata dalla lama.

*

Come dire questo sacro sottile nelle cose. I rovi smorti in capo all’aia che questo sole benedice come un’ostia sciolta nella bocca o il pastore che dorme sui greppi e non sa di questo mondo, il capo delle pecore piegato tra gli sterpi a costruire intorno al sonno una difesa contro il tetto del capanno che si sfalda e lascia nella terra sepolti i segreti della zappa o del concime, mentre l’amianto residuo della casa aspetta un altro nido, un becco di ghiandaia che porti un altro seme o la grazia dei marciumi e della polvere a coprire tutto il male del passato.

*

Spargo i miei organi in vendita sul letto
come Lego i bambini sul tappeto

tu leghi le ossa alle ringhiere
perché al posto delle ali
gli angeli ne facciano stampelle

i corpi sono scambi di lamiere
di croste marce di ferite

ieri pendeva dal tuo orecchio
il fegato in cancrena di un rondone.

*

Il calice di legno, intarsiato, l’elsa
sulla tavola. Poco altro. Rituale.
Tu raduni tutti i feti che non hanno
avuto luogo nella luce. La tua pelle
stella di carbonio, la scodella
rovesciata, il pane azzimo, la preghiera
che nessuno ti ha insegnato, la moneta
etrusca, sul palmo, a leggerti il futuro.

*

Che cosa ne sarà di questi giorni
malati di una luce e un sole molle
le zolle ormai crollano al tuo passo
e il veleno di ogni sasso è sangue
amaro sempre nuovo alle tue ossa.

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