Francesca Del Moro | Le conseguenze della musica

a cura di Giuseppe Martella
da Le conseguenze della musica (Cicorivolta, 2014)


Le conseguenze della musica (2014) è una silloge che non ha ricevuto molta attenzione da parte della critica e i cui componimenti sono in effetti di valore ineguale, ma che contiene spunti di notevole interesse per delineare la traiettoria poetica della maturità di Francesca Del Moro. A mo’ di cornice vi troviamo i due seguenti eserghi rispettivamente da Sandro Penna e Pedro Salinas:

“L’opaca moltitudine si aggira  tutt’intorno alla musica. Contenta/  non sai di che. Una bellezza sola…Invisibile a tutti e più a se stessa”

“Con la punta delle dita/ sfiori il mondo, gli strappi/  aurore, trionfi, colori,/ allegrie:/è la tua musica./ la vita è ciò che tu suoni”. Cui seguono i versi iniziali: “ho il cuore come creta/  col suono tu lo plasmi/…Come posso fare ora/  le cose che devo fare/  ora che sono/ così riempita di luce/ che i confini della pelle/  si dissolvono. (13-14): con le epigrafi e con questi versi, Francesca Del Moro colloca d’intuito la musica all’incrocio di occhio, mano e orecchio. Ne coglie cioè l’operare elusivo sulla carne del mondo, nell’interfaccia fra il visibile e l’udibile, nello stacco fra le parole e le immagini. Sicché l’io poetico si presenta come gelatina, impasto creaturale, materia disponibile a ricevere l’impronta del favoloso artefice, facendo la propria parte nel dramma della creazione: là dove la tragedia (come ci avverte Nietzsche) nasce appunto d’improvviso dallo spirito della musica, nello spazio minimo fra abbandono e controllo, vita e forma, essere e coscienza. Inoltre qui si accenna al tema della trasfigurazione del corpo sofferente del cantastorie antico sempre disposto a “lasciar bruciare lo stoppino della propria vita alla fiamma misurata del proprio racconto”, (Benjamin) ossia di colui o colei che è preparato perfino a farsi martire per amore della propria vocazione. Un tema, quest’ultimo, che verrà ripreso e sviluppato cinque anni dopo, in quella mirabile scultura danzante che è La Statura della Palma (2019), dove la dominante iconica della poesia di Francesca si fonde con la vena musicale carsica che tacitamente la attraversa.

Nella sua pregevole prefazione a quest’opera, Anna Maria Curci, indica un percorso di lettura che a mio parere si potrebbe estendere all’intera produzione di Francesca: “Martirio e poesia: testimonianza, astuzia, scandalo, interrogazione inesausta, ferita aperta, prodigio d’amore… un insieme di nodi e gangli, un universo di  costellazioni di significato che brillano e illuminano, si illuminano vicendevolmente e schiudono alla vista possibili sentieri interpretativi.” A partire dalla lettura di questa preziosa plaquette, che costituisce a mio avviso uno dei punti più alti della ricerca poetica di Del Moro, possiamo constatare anzitutto che una “seconda voce” di ordine confessionale si ritrova in diversi poeti che, come lei, fanno della denuncia civile e dell’ironia mordace la propria bandiera, magari in aperta polemica con l’inclinazione orfica di altri, che in loro rimane invece rimossa o sottaciuta. Ma non possiamo sottovalutare questo risvolto della parresia perché allora dovremmo ammettere la preclusione originaria di ogni possibile intonazione tragica. In altri termini, constatare che il mondo vero già sempre si è trasformato in favola, che le belle immagini di sogno apollinee hanno fagocitato gli oscuri tormenti dionisiaci, e che l’inattingibilità del tragico non è solo un tratto caratteristico del nostro tempo ma piuttosto fa tutt’uno con la poesia in quanto tale, che si vedrebbe pertanto ridotta da un lato alla rimemorazione dei fatti e dall’altro alla espressione degli stati d’animo: cioè alla mera contrapposizione fra epica e lirica. E non invece, come ci figuriamo che fosse fin dall’inizio, così nel mondo greco come in quello ebraico, un essere invasati e colti sul fatto da parte degli antichi cantori nelle loro rapsodie (o ricuciture della storia sul proprio corpo), per essere processati come capri espiatori dall’uditorio complice, in un vertiginoso scambio dei ruoli di sacerdote e vittima, in quel climax cerimoniale della mimesi antagonistica, in cui René Girard vede l’origine di ogni cultura. Questo dispositivo di ordine antropologico ha anche un evidente risvolto po/etico, operando all’interno del singolo, nell’atto stesso che gesticolando richiama l’attenzione degli altri su di sé come possibile paria, e poi prendendo la parola si offre spontaneamente inerme al loro giudizio, volteggiando con le figure del proprio discorso sul filo invisibile teso sopra l’abisso tra banale e fatale, o sopportando quel taglio inaugurale che riunisce tutti i cuori all’unisono, sulla soglia fra condanna e compassione, dove labili si susseguono i chiaroscuri della bella bugia poetica. Si tratta allora di riconoscere, ciascuna volta in un rinnovato patto fra creatore e creatura, il fondo orfico da cui emana ogni efficace parresia, ogni missione filiale in grado di tradurre e tradire la legge del Padre, ripetendo anche in forma di ellissi o di parabola, il ritornello cardine della Buona Novella: “sta scritto ma io vi dico”; e con ciò inevitabilmente attendendo l’ora del martirio e della trasfigurazione, quando l’antica legge gli verrà scritta con l’erpice sul corpo fino a cambiargli infine l’espressione del volto, come accade esemplarmente al prigioniero della Colonia Penale di Kafka, che si può leggere appunto come l’ennesima glossa a margine della passione del Crocefisso o se si preferisce di quella di Dioniso-Orfeo sbranato dalle menadi invasate dal suo proprio canto.

Ho fatto questa lunga premessa di carattere teorico per dire che ogni professione di realismo e ogni istanza autenticamente epica, specie nelle epoche di trapasso come la nostra, contiene a monte una resa dei conti col perturbante che ci abita e una qualche forma di discesa agli inferi, che infatti si ritrova in tutti i prototipi dell’epica, dall’Odissea, all’Eneide, alla Commedia, costituendo il presupposto sia della confessione lirica che della catarsi tragica. Semplificando al massimo i termini di una questione assai spinosa, si può affermare insomma che la vicenda di Orfeo già contiene fuse in sé quelle di Odisseo (il primo personaggio narratore) e di Edipo, l’onnisciente risolutore di enigmi, l’interprete archetipico, l’esecuzione della cui parte maledetta mette in opera la partitura musicale di un destino comune. Si tratta cioè di rileggere in controluce la nietzschiana “nascita della tragedia dallo spirito della musica”, indagando i modi e i tempi variabili per ciascuno di quella tensione fra apollineo e dionisiaco, ossia fra le luminose immagini e le indicibili sofferenze del (D)io po/etico a una svolta della propria storia, in quanto “conseguenze della musica”.

E’ ciò che mi pare faccia Francesca del Moro nel corso della propria ricerca, che ha nell’iterazione battente di temi e forme e nella alternanza ricorsiva di estroversione e introversione, scandaloso candore e ironia mordace, imprecazione e preghiera, le due facce complementari della propria poetica. Sicché, a mio giudizio, per poter entrare davvero nel merito di ciascuna sua opera, bisogna prima aver fatto l’orecchio al respiro profondo e regolare che tutte le unisce, come una sorta di versificazione che esonda dai limiti della pagina o del singolo libro per attraversare gli spazi bianchi del non detto e del non scritto, dell’afasia e del silenzio, le lunghe pause del raccoglimento e dell’ascolto, che tutti i veri poeti credo abbiano sperimentato e messo a buon frutto.

Quando si registra, ad esempio, meravigliati ed entusiasti il fatto che Francesca sia riuscita da ultimo a manifestare nei vari registri della sua scrittura l’indicibile dolore di una madre che ha perso il proprio figlio suicida, si dovrebbe proprio por mente alla lunga educazione est/etica cui si è quasi costantemente sottoposta nel corso degli anni, alternando un libro di violenta denuncia a uno di pacata introspezione. Una volta fatto l’orecchio a questo antifonale, l’interprete potrà a sua volta infine uscire dal coro del plauso o della condoglianza di maniera ed esporsi egli stesso a un possibile martirio figurato, proprio per poter rimanere all’altezza della voce che lo interpella.

Nell’itinerario che ho tracciato, una tappa importante, come ho accennato, è segnata da La statura della palma, un libretto esiguo ma prezioso ed esemplare nel mostrare la trasmutazione delle sofferenze e delle amputazioni dei corpi delle 13 martiri protagoniste, nelle immagini luminose dei corrispondenti monologhi drammatici, quanto a dire nell’offrirci una fenomenologia del martirio come conseguenza dell’abbandono “musicale” che prelude all’abbraccio di ogni confessione di fede.

Ancora Anna Maria Curci sottolinea la capacità argomentativa e “l’interrogazione inesausta” di cui Francesca da prova in quest’opera, dove l’interrogazione sembra sgorgare da una ferita aperta, squarcio e piaga,  che esprime insieme patimento e vocazione. Come viene riassunto al meglio dal ritornello del bellissimo il canto di Agata dai seni recisi, la prima martire a venire al proscenio: “Una volta, due, tre, quattro /   gira e rigira la tenaglia/ sul battito del cuore snudato /     gira rigira e taglia.” (7) Piuttosto che dall’offerta incondizionata del corpo di Cecilia, la V, alle conseguenze della musica: “Non ho più confini alla pelle, ora./  Non ho geografia di corpo./ Letto di fiume sono/ allo scorrere del suono./… senti, mio amato, senti/ questa musica nuova.” (14) O dall’insondabile mancanza creaturale di Felicita, la VII, una madre che si offre al martirio nell’atto stesso di dare alla luce la propria figlia: “Io sono l’assenza./ Sono la mancanza, il vuoto, il volto/ per scherzo disegnato dalle ombre della notte./  Per scherzo, per celia verso il suo bisogno./ Il buco in cui precipita nel sogno.” (17) Martire cristiana, certo, ma anche voce che scaturisce dall’abisso fra i patimenti di Dioniso e le immagini di sogno di Apollo. L’intera inesausta tensione po/etica fra controllo e abbandono, in una serie di squisite variazioni, viene così espressa nei monologhi di queste martiri, che costituiscono altrettante figure del Verbo incarnato e avveniente (il Figlio in quanto Logos Egeneto).

Così quello che era stato solo un abbozzo cinque anni prima (Le conseguenze della musica, 2014) si fa qui opera risoluta e mirabile, coreutica: un balletto plastico, nella perfetta inerenza di suono e immagine, come una sorte di Lacoonte scolpito nell’acqua, groviglio di genitori e figli strangolati e divorati da serpenti marini, liquefatto e rifatto in tante guise, esposto all’ira degli dei della distanza, Apollo e Atena, o all’ineffabile pietà di coloro che ne anticipano il decreto offrendosi volontariamente al martirio. L’immagine di Lacoonte mi induce, fra l’altro, a pensare al famoso saggio di Lessing sui rapporti fra poesia e scultura, ossia anche fra musica e immagine, o fra sentimento e forma, così come viene esplorato dalla ricerca di Francesca, in quella sua alternanza di introiezione e estroversione, inspirazione e espirazione, che costituisce il ritmo diastolico-sistolico o il respiro stesso della sua poesia, sicché quasi sempre l’opera seguente costituisce una sorta di antifona in tono minore e quasi confessionale della denuncia aperta e mordace di quella antecedente: così capita per esempio per Le conseguenze della musica nei confronti di Gabbiani Ipotetici, o di Una piccolissima morte nei confronti de Gli Obbedienti. Come se un corpo informe e ferito si raccogliesse nella ragnatela delle proprie cicatrici, sotto la luce impietosa di una coscienza fin troppo vigile, mitigata però da una coltivata pietà verso di sé prima ancora che verso gli altri. E’ proprio questa alternanza tonale che sottende la “composizione di luogo”, l’esercizio spirituale, questa sorta di lungimirante educazione est/etica che riguarda sia l’individuo che il genere umano, e che trova una prima mirabile fusione ne La statura della palma appunto, consentendo a Francesca di oltrepassare quello stadio di introversione che aveva già sperimentato in Una piccolissima morte (2018), per venire a capo della morte grandissima che l’avrebbe investita di lì a poco, sì da non soccombere allo sconforto, al rimorso e al silenzio, che costituiscono gli esiti possibili di una perdita irreparabile: quelli che ti tolgono il respiro prima ancora che la parola. A ben vedere infatti il rimorso, in particolare, costituisce spesso come l’interdetto nell’elaborazione del lutto, ciò che rimane celato nelle sue pieghe, dettandone però i modi e le fasi, le coreografie e le maschere che dall’erebo affiorano alla coscienza per ripiombarvi subito dopo in una sorta di nékya privata che prelude a una eventuale auspicabile condivisione del dolore. Più precisamente è il processo che conduce dal rancore al rimorso, e infine al perdono nei confronti di se stessi prima ancora che degli altri, e al dono della parresia, della parola che svela il corpo nudo, esposto, informe e dolente, affamato d’amore e di vita, che in Ex madre appare anzitutto nella sineddoche del cuore piagato appunto dai rimorsi, nella elaborazione del lutto, dove la macchia archetipica dell’esserci, il grumo del sangue versato che mescola generazione e martirio, si riversa a ondate incontenibili dagli occhi della protagonista, nonostante i farmaci, rimedi-veleni del corpo e del linguaggio, sotto forma di un pianto incontrollabile che funge da veicolo e tenore di una catarsi in corso d’opera, di una possibile trasfigurazione dell’altrimenti indicibile, che è la quint’essenza della metafora, cuore pulsante della parola che cura quello di carne che continua a pompare sangue nelle vene dell’ex madre, della sopravvissuta alla morte del figlio. Riuscendo altresì a contenere la ricorrente tentazione al suicidio della protagonista che, per disposizione genetica ed esperienze condivise, si considera complice del gesto del figlio, come si può leggere in diversi luoghi della sua poesia, a partire dalle parole toccanti nei confronti del figlio adolescente in Le conseguenze della musica: lo sai che “ anche se ne sono fiera devo accigliarmi/ se scrivi un tema intelligente e coraggioso/… non posso mica sempre    riempirti d’amore/ e scusarti perché/ hai preso tutto da tua madre,/ non è certo educativo … lo sai che mi devo arrabbiare.” (60)

Il tema dell’amore per il figlio va di pari passo con quello della paventata inadeguatezza per il ruolo di madre nella intera produzione di Francesca, e si ritrova ancora in questa antifona in tonalità minore alla invettiva urlata e all’ironia corrosiva di Gabbiani ipotetici, in queste Conseguenze della musica in cui la poeta instaura un dialogo intimo e continuo con la figura archetipale del Figlio, in una toccante lirica dedicata all’amico poeta suicida Massimiliano Chiamenti, dove fra l’altro viene in chiaro il proprio sentirsi fragile e inadeguata al ruolo di mater dolorosa, in versi che suonano col senno di poi come un terribile presentimento e un mea culpa recitato in anticipo: “Pensiero assurdo/  di esserti madre/ io amorosa e confusa/ e fragile e fallita come te/…io ci proverò ora/ a ridarti alla luce/ puro e perfetto come/ si pensa ai morti che si amano/ però vivo” (89) Così la chiaroveggenza di Cassandra prelude qui a quel sogno di Maria che costituirà la cornice della coreografia del martiro, mirabilmente realizzata cinque anni dopo ne La statura della palma. Questo per dire che l’iterazione (anafora, catafora, refrain, e quant’altro) non costituisce solo un procedimento microstrutturale (all’interno di una singola poesia o raccolta) ma riguarda l’intera opera di Del Moro, costituendone il filo conduttore che ci consente di cogliere quel tacito respiro che anticipa la parola e sopravvive al silenzio. Entrare in sintonia con tale respiro profondo e variato, significa poter andare al di là della semplice empatia per attingere se possibile a quell’autentica dimensione ermeneutica che sola può farci comprendere la portata po/etica del lavoro del lutto compiuto in Ex madre.

E’ infatti il medesimo respiro che abbiamo notato in tutta la sua opera, quello che unisce la madre al figlio che a un certo punto decide di interromperlo attaccandosi alla canna del gas. Il figlio che ha deciso, offrendosi come martire di una inaudita teologia crucis al femminile, non solo per rimediare all’assenza colpevole del padre, ma anche per dar forma definitiva al desiderio di morte che attraversa la vita travagliata della madre e trova ampia espressione nella sua poesia, costituendo la faccia ctonia di quella professione d’amore per il figlio che altrettanto spesso vi appare, come sorgente della gioia che ne illumina i giorni nonostante tutto. Per questo dico che, per comprendere appieno il senso del miracolo compiuto da Francesca in Ex madre, bisogna aver esplorato anche il lato ctonio della sua poesia, il risvolto orfico, lunare, risentito a volte, che funge da antifona alla parresia della sua denuncia civile. E per poter leggere in controluce questo suo ultimo capolavoro umano e poetico, rimanendo così all’altezza della interpellanza inaudita che ella ci rivolge, cospargendo di chiari indizi la messa in scena della propria immane tragedia.

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