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Emilia Barbato | Labili trame

di Giuseppe Martella


La reversibilità della natura nello specchio della psiche, nell’incanto di un attimo fugace, colto nel punto di flesso della curva dell’esperienza dove l’infra-quotidiano sfiora per la tangente l’infinito, e il dio delle piccole cose mostra il suo volto di sfinge. Così, la si intravvede tra agire e patire, assolvenze e dissolvenze, delicate ombreggiature ed evanescenti epifanie, già dall’introito in forma di dedica della prima fra le due raccolte di Emilia Barbato che prenderemo in considerazione [1]: “Nell’unione tra l’impronta reale /e inconcepibile di un uccello azzurro/ il passo cauto di una cerva di campo/ l’eterno della vita, sempre per te/ la levità dei miei pensieri in un fitto/ di filari di faggio e canti. a G.”. (NR 11) Così incontriamo la cifra della sua poetica, il suo tacito farsi animale, pianta e pietra infine, in un percorso di pacata deposizione dell’io su un indicibile piano di immanenza, che qui ancora fa da sfondo alla residuale vicenda autobiografica toccata per punti di fuga, quasi note di un pianoforte esistenziale o chiaroscuri dell’esserci, dissolvenze sfumanti al nero, ma che poi verrà messo a tema nella successiva Primo piano increspato (2022) dove invece l’intreccio narrativo si dissolve in effetti di atmosfera, granuli di una impersonale, onirica aderenza al Reale come fusione fredda, religiosamente meditata, tra l’Immaginario e il Simbolico, (Lacan) in una sorta di partito preso delle cose dove le parole si acquietano, preludendo al silenzio che le custodisce e le attende. E si noti come tutte e tre le sezioni della seconda raccolta, si chiudano con delle dissolvenze propriamente ed etimologicamente cinematografiche, tali cioè che coinvolgono l’azione e la grafia, l’occhio e la mano, in unico gesto che si direbbe quasi di preghiera panica di ringraziamento, che nulla chiede ma solo corrisponde, come l’uccello, la cerva, il giglio, la foglia, alla grazia dell’esistere. Divenendo pura pulsione sinestesica, battito, accordo, musica sottesa a ogni possibile, evanescente evocazione ed espropriazione linguistico-esistenziale, che già si annuncia nella sezione conclusiva della prima raccolta, Camille: dove il nome può verosimilmente riferirsi a Camille Claudel, sia per la somiglianza del carattere schivo che della vicenda amorosa dell’io poetico con quelli dell’amante sfortunata di Rodin e scultrice di grande talento, che appunto nel suo Valzer, scolpisce la danza dell’amore cosmico, con echi di De Bussy e Ravel, fermando in un’istantanea di bronzo lo stormire delle foglie e il sussurro dell’erba, il canto dell’uccello e il fremito della cerva, e fungendo così da perfetto correlativo oggettivo di quella vicenda di deposizione dell’io che è la cifra dell’intera poetica di Barbato, e che fa da tratto comune alle due raccolte in questione. Si noti, a questo proposito, la somiglianza del fermo immagine del passo di danza nella scultura di Camille Claudel con la scena conclusiva di questa raccolta: “i nostri vuoti, quei piedi mancati/ che siamo, nudi e suonanti/ sull’assito, quarantacinque/ giri in copertina sottile.” (NR 58) Che diviene, nella deposizione autobiografica della seconda, puro calligramma e danza oggettuale: “Guanti, ombrelli, sciarpe/ passaporti scaduti, imbracature,/ testimonianze calligrafiche, una farmacia/ domestica, liberano a ondate gli umori del passato.” (PPI 62) Scrittura, appunto, come supplemento e traccia della cosa che ci manca, dell’elegante girare a vuoto dell’esserci stati, nella trasfigurazione artistica della nostra troppo umana finitudine.
La tensione tra flusso e forma si incarna di nuovo, nella prima raccolta, in una immagine di danza cosmica: “Danzi e chiami corda la rotazione nei passi,/ musica di foglie, l’universo/ dove oscilliamo.” (NR 24) In un antifonale di vento e foglie, in uno stormire che presume uno stornare lo sguardo dall’oggetto usurato e rivolgerlo all’evento originario che lo costituisce, come fosse la prima volta.
Nelle prime due sezioni dominano qui le metafore vitali di vento, erba e foglie, sicché “lei è tramontana,/ un taglio trascurabile sul viso (17), scorre tra le cose di natura, filando il loro intraducibile mulinello, “l’erba e il suo passo cauto di formica”, si fa bianca viola e corpo bosco, come la regina Maab nel Sogno di una Notte di mezza estate, intreccia fili di ragno che il vento disfa. Mentre nelle seconde due dominano le mortifere immagini minerali di pietra e polvere, che connotano al contempo il consumarsi dell’amore e il processo di deposizione dell’io: “io. Io sono la polvere,/ il nonnulla che si lascia/ andare, la parte trascurabile,/ la figura malinconica/ di un mozzicone sulla strada, / la sua ombra che si piega.” (47)
E ora, per venire alla messa a fuoco sull’ultima raccolta, il “Primo piano increspato”, l’ondulato poroso intrascendibile piano di immanenza di Deleuze, dove sparisce anche il minimo residuo di un intreccio biografico e si esercita in pieno quella attenzione sinestesica già annunciata nel finale della raccolta precedente, che prelude alla deposizione dell’io po-etico, al suo farsi altro da sé per auscultare l’ecosistema che lo ospita. Qui l’intreccio narrativo, in cui consiste l’identità radice, la singolarità, la vendicazione del sé, si dirama a rizoma in una miriade di trame, onde vibratili, stringhe che sottendono il continuo reciproco risolversi di massa ed energia. Ciglia, filamenti di DNA, incroci di sequenze, pura molteplicità sfalsata su mille piani, dove il caso gioca con gli amanti burattini, in attesa di divenire destino (Szimborwka). Equilibri punteggiati di una mai finita evoluzione. Le dissolvenze che chiudono le tre sezioni dell’ultima raccolta, In rosso, Voci da un pontile, L’Hotel: “l’eco di una risata che scuota/ l’aria della stanza, un sorriso/ rosso e carnale ma nello specchio/ trovi solo un concetto/ molto consueto di piastrelle.” (29) Battello perduto/ si allontana dal pontile/ in creste d’argento.” (46) “L’hotel, i palazzi,/ la pista ciclabile e l’esiguo/ brusio delle foglie svaniscono/ dove l’asfalto si spiega/ argenteo di aria lunare.” (63) L’isotopia della vanitas è trasversale nella poetica di Emilia Barbato, così come la tecnica della dissolvenza in senso propriamente cinematografico. E il suo comporre, ancor più qui che in Nature reversibili, consiste in una sorta di montaggio documentario, cosale, meramente associativo, a la Vertov, per chi ce l’ha presente: senza intreccio, senza protagonismo. L’io affonda negli incroci delle proprie percezioni, si fa rizomatica, invisibile radice. Montaggio radicale, ontologico, di inquadrature, documenti che non si fanno cronaca né tantomeno storia. Vertov fu un regista polacco, promotore di una sorta di cinema verità cui poi si associarono figure come quelle di Godard, Kiarostami e per ultimo il polacco Kieslowsky, che ha un ruolo importante per comprendere l’impianto di quest’ultima raccolta di Emilia Barbato, la cui prima sezione, “In rosso”, si ispira a mio avviso a Film rosso, l’ultimo della trilogia dei colori della bandiera francese e del trittico della Rivoluzione per eccellenza: Libertà, Uguaglianza, Fraternità. Fraternità francescana, intesa come Agape, amore distanziato nel tempo, diffuso nello spazio, costitutivo di una composizione di luogo, un esercizio spirituale nel senso di Sant’Ignazio da Loyola, seppure sia declinato in chiave laica e leggermente panteistica come accade nel nostro caso. Si è infatti a ragione fatto il nome di Cristina Campo, a proposito della poesia di Barbato: però quest’ultima è più pacata, laica e sussurrata dell’altra. Le manca il grido, la chiusa memorabile, l’affondo verticale e ciò ne costituisce il pregio e il limite nel contempo. Una sorta di timidezza di cerva che cede all’uccello azzurro (NR 11) come Leda si abbandona alla violenza divina del Cigno, rimanendo in sospeso, come in una memorabile poesia di Yeats, la domanda se ne avesse raccolto il sapere insieme al brutale potere. E’ la domanda cui Emilia risponde proprio nella poesia da cui trae il titolo di questa raccolta, rivolgendosi al proprio alter ego in terza persona: “sa del primo nemico/ e della natura divina insieme.” (PPI 18). E’ il sapere-potere del Dio inverso, del doppio che ci getta nella foresta di specchi, nel tempio della coscienza di chi parla e con ciò divide (diaballein, diabolus) natura e coscienza, flusso e ritaglio, sentimento e forma, smontando e rimontando il film della vita, in una prospettiva monadica che costituisce anche la prigione dell’anima che ha perso le ali nell’ultima caduta nel corpo, secondo il mito orfico della metempsicosi. Tutta la poesia di Barbato è un saggiare, sapere, apprendere il proprio mondo ambiente, in un pacato, graduale, musicale abbandono del proprio sé al battito d’ali del Cigno che la sovrasta. Un saggio cinema-to-grafico, dal taglio documentaristico, un laboratorio dell’udito che lavora al montaggio di suoni e rumori in sincronia con le immagini per cogliere i movimenti necessari delle cose, il loro ritmo interno, al di qua di ogni intreccio autobiografico, di ogni legittimazione narrativa. I suoi occhi accesi emettono raggi laser, fasci di luce coerente che attraversano lo spettro del visibile per sondare l’infrarosso e l’ultravioletto, inferendo tagli chirurgici, scomposizioni nel flusso percettivo, ritagli disponibili a un ventaglio di montaggi a beneficio del lettore spettatore nell’atto della sua ricezione del testo. Una versione aggiornata del Kinoglaz (Cineocchio) di Vertov che concepì il “cinema verità” come una serie di associazioni epifanico-musicali in cui si attua la deposizione del soggetto sul proprio piano di immanenza: quel primo piano poroso e increspato che ritroviamo nel manifesto pubblicitario di una marca di chewing gum, cui la bella e buona modella Valentine ha ceduto il proprio volto, e che costituisce insieme al colore rosso il nucleo simbolico attorno a cui si svolge l’ultimo episodio di Tre colori di Kieslowski, quello dedicato alla Fraternità, che sola può riscattare i danni fatti dalle sue consorelle Libertà e Uguaglianza, sempre più abusate come strumenti di violenza congiunta alla natura e all’arte.
Film rosso, come tutto il cinema di Kieslowski, presenta delle impressionanti analogie con la poesia di Barbato, ma qui in modo ancora più marcato e tematico: il nesso elusivo fra caso e destino, l’aleatorietà dell’esserci, l’insistenza sulle coincidenze della vita, l’uso insistito della dissolvenza, le epifanie prolungate, quiete, attonite, il peso dell’implicito e la sospensione del giudizio, l’attenzione al particolare come esercizio etico, le inquadrature studiate, i frammezzi e i frattempi, il voyerismo sonoro. Sicché non deve sorprendere che la nostra poeta intitoli “In rosso” la prima sezione dell’ultima raccolta in ossequio alla pervasiva simbologia del fuoco dell’amore che si decanta francescanamente in quella sorellanza creaturale, raggiungibile attraverso lo spoliazione dell’io, nel suo progressivo attraversamento dei regni animale, vegetale e minerale, in una sorta di archeologia del sapere, fino a giungere a quel piano di immanenza dove il corpo riposa e il mondo si fa poeticamente abitato, in una assorta composizione di luogo cui corrisponde un assiduo esercizio di stile sulla soglia del silenzio: “il silenzio/ non ha che il corpo in cui raccogliersi,/ liquida/ una calma, l’onda del vento./ Da una tela di tre ragni/ vorremmo cogliere i simboli della stele/ ma ci arriva una pace di pietre,/ la grazia che l’occhio contiene.” (26) “Siedi sulle ginocchia per vangare/ applicato in un metodo/ dissennato, inconcludente,/ tenendo per ore le dita piegate/ come un vomere sulla carta”. (27) C’è qui una vera e propria dichiarazione di poetica dell’esserci come traspropriazione del soggetto dell’enunciazione, da parte di colei che si astiene deliberatamente dal dire “io” offrendosi senza enfasi all’alterità che la abita. Se orecchiamo la paranomasia implicita in quei “tre ragni” e leggiamo “tre regni”, coglieremo in pieno la trasversalità della poetica di Barbato. Quella stessa che viene messa a tema nella sezione II, “Voci da un pontile”, che declina puntualmente la parola “pontile” in tutte le dodici liriche che la compongono, in modo tale da inclinare il “pontile” in un giro d’orizzonte, in una rotazione completa, in una giostra di emozioni e intermittenze del cuore, nell’intermezzo, tramezzo, tratto (Bezug, pontile) tra parola e cosa, nel taglio obliquo (L’Um/Riss di heideggeriana memoria), quella ferita, quella crepa madre da cui scaturisce la poesia. In questa rutilante fenomenologia del pontile, tratto di congiunzione fra terra e acqua, solido e liquido, nella poetica archetipica di Emilia Barbato, come nella elementale ontologia dei fisiocratici greci, il pontile fa una rotazione di 360 gradi, convocando la reversibilità delle immagini e la rosa dei venti che già spiravano in Nature reversibili, ergendosi all’improvviso nella guisa del Dito di Cattelan o, in certi giorni di temporale quando il silenzio trattenuto, all’improvviso si squarcia nel tuono, ergendosi su se stesso, “rendendo al cielo il suo concetto di molo.” (44) Così questo segno composito, insieme indice, icona e simbolo, nella sua finale dissolvenza (46), come il “bateaux ivre” di Rimbaud, trapassa oniricamente in quello della soglia spazio-temporale (49) che ci introduce al luogo altro, intimo e perturbante, dell’ultima sezione, quell’“Hotel” spettrale in cui si compie la traversata dei regni, la catabasi dove la carne incontra le sue radici vegetali e minerali, la foglia, il fiore e la pietra, compiendo la kénosis del soggetto parlante e pensante, il collasso del cogito sul proprio materiale, screziato piano di immanenza, (58) il suo abbandono al partito preso delle cose. L’Hotel, quel non luogo dove l’arte e la vita si disfano di conserva nella medesima patina di polvere, (60-61) e ogni residuale trama narrativa viene lacerata dai momenti dell’essere, quando “la favola/ si strappa e l’intonaco mostra/ intera la sua smorfia.” (56) Dove il disegno si scioglie nel colore e i profili delle cose affondano nell’ombra, in una multiplanare dissolvenza, una metamorfosi marina senza il mago dell’isola, senza alcun Prospero o Ariele, nell’estremo disincanto dell’umano, nell’accompagnamento del brusio anonimo degli oggetti abbandonati nell’interregno fra le parole e le cose, dove la casa dell’essere che è il linguaggio (Heidegger) subisce la propria catastrofe ed epistrofe, si fa sussurro e silenzio, sparisce nel “gesto/elastico dell’alba” (55) che sempre attende oltre la “voracità della notte” (55), oltre il r/apprendimento al rosso e la dissolvenza al nero (63) che riunisce i finali di Kieslowski e di Barbato, e in verità ogni finale provvisoria dipartita da questa polvere che ci compone e mai ci è appartenuta.


[1] Nature reversibili, LietoColle, prefazione di Maurizio Cucchi, 2019; Primo piano increspato, Stampa 2009, prefazione di Maurizio Cucchi, 2022. Nel testo ci riferiremo ad esse rispettivamente con le iniziali NR e PPI, seguite dal numero di pagina.

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