Luigia Sorrentino | La fine era lì, dove qualcos’altro cominciava

di Gisella Blanco
fotografia di Dino Ignani
n.d.r. Questa intervista è stata realizzata a dicembre 2021


La poesia contemporanea svela e rivela la capacità di trattare i più alti temi filosofici con un linguaggio fervido e puntuale che non disperde la sua intensità nella tentazione al cerebralismo manieristico, risultando capace di essere limpido nell’immagine e suggestivo nel senso. Abbiamo dialogato con Luigia Sorrentino, poeta, giornalista e curatrice del blog Poesia, il primo blog della Rai dedicato alla scrittura in versi. Abbiamo scelto di prendere in esame tre delle sue principali opere: “Inizio e Fine”, pubblicata da Stampa2009 nel 2016, con prefazione di Maurizio Cucchi; “Olimpia”, pubblicata da Interlinea Edizioni (stampato nel 2013 e ristampato nel 2019), con prefazione di Milo De Angelis e postfazione di Mario Benedetti; “Piazzale senza nome” pubblicata da Pordenonelegge – Samuele Editore nel 2021.


Ci siamo immersi negli scenari onirici dei versi di Sorrentino, in cui il mitologema si ripropone perennemente innovato e sempre intatto, per riscoprire come la poesia sancisca la consapevolezza dell’inizio e la competenza sull’epilogo dell’esistenza, e possa coinvolgere il lettore nel vortice ricorsivo di ascesa e discesa, di principio e di termine dell’emivita biologico-spirituale dell’umanità.

Il suo incipit mi invita a chiedermi se davvero la mia poesia mette in pagina scenari onirici, ovvero, se ripropongo i miti del quotidiano analizzati da Roland Barthes in Mythologies. Il paragone m’intriga… Di certo la lingua di Olimpia filtra l’attualità, il contemporaneo, in figure archetipiche, mitiche, numinose che cedono il passo a quella che potrei definire “una lirica del feminino” nel suo eternarsi immutabile. Questo atto secondo me è deflagrante nella lingua, perché l’oggetto verbale non è solo estraneo a ogni ideologia e intellettualismo, ma apre scenari onirici in cui la contemporaneità è latente. Ad esempio, in Olimpia, nella sezione che ha per titolo “Iperione, la caduta”, incontriamo la figura del titano che ingaggia la lotta per la supremazia contro gli dèi dell’Olimpo, e il suo tentativo è destinato a fallire. L’essenza di Iperione potrebbe trovarsi in ognuno di noi, perché la simbologia del titano è quella del perdente, di colui che perde nella lotta. Nel poema la figura di Iperione si estende, sconfina, va oltre, e questo è il disturbo più diffuso nella contemporaneità. Potremmo dire, quindi, che Iperione e il suo desiderio di potenza è l’archetipo di un’esistenza debordante che è senza limite. A questo desiderio di potenza si contrappone la figura di una donna androgina, Olimpia, appunto. Una donna, certo, ma anche una città si contrappone a Iperione con la forza mitica della luce che si espande sopra di lui, e lo costringe a restare nel suo confine di non luce.
Inizio e fine, invece, abbandona lo scenario onirico e la lingua di Olimpia e anticipa il discorso di Piazzale senza nome, un libro che entra nella vita e nella morte degli altri, in un altro da sé. In Inizio e fine tutto ruota attorno al nome di questo “altro” nel riflesso brunito, bruciato, della fine.
In questo lavoro la mia riflessione poetica si è concentrata sul processo di cancellazione dell’individualità, dell’identità della persona. Mi sono ritrovata ad affermare quella verità che Michel Foucault indica con il termine parresia: avere il coraggio di dire la verità (sulla morte) e sulla vita dopo (la morte), una verità inaccettabile, per certi versi oscura, una verità impossibile da definire, una verità percepita, del tutto estranea alla razionalità.
Con Piazzale senza nome la lingua della poesia ingaggia una lotta durissima con la parola per affermare la verità della violenza. È una poesia che vuole che tutti riconoscano questa verità.
Ho scritto questi testi in poco tempo, fra il 2017 e il 2018. Mio padre moriva, e mentre accadeva questo fatto si è sovrapposta nella mia scrittura, un’altra perdita: un’esperienza individuale (e collettiva) vissuta nell’età dell’adolescenza.
Il morire del vecchio uomo e il morire dei giovani ha trasformato l’opera in un morire nel morire.
Piazzale senza nome è il luogo archetipico in cui queste vite si sfiorano, molti nemmeno si conoscono, ma sono stati lì, in tempi diversi, sono passati in quell’incrocio fra due strade: una delle vie conduce al porto della città, la strada opposta raggiunge una via e un quartiere che negli anni Ottanta era un luogo in cui ci si poteva perdere, si poteva morire.  
A differenza di Olimpia e di Inizio e Fine la lingua di Piazzale senza nome è fredda, quasi anaffettiva, perché è contaminata dalla violenza e dalla dipendenza, fisica, affettiva, psicologica, in cui sono calati tutti i personaggi.
È un’opera che rivela la luce temporalesca del luogo, del piazzale, in cui la violenza ha camminato sottotraccia, nascosta nel tempo e poi si è materializzata nella scrittura del libro.
Ecco perché tutte le figure che entrano nelle sezioni del libro secondo me infestano il luogo della poesia, lo illividiscono, rendono l’esperienza della poesia irrespirabile, asfittica. Ma tutto è reale, perché si avverte nitidamente che qualcosa accade, qualcosa è accaduto, e si impone brutalmente nella sua verità.
Piazzale senza nome è quindi l’archetipo di un’umanità violenta (titanica) trasgressiva, che si nasconde nel degrado della propria individualità. I giovani sono scossi da una vertigine, da una spinta autodistruttiva che aspira alla divinizzazione della violenza e dell’autolesionismo. È questo il tema che pervade l’opera: la frattura tra l’uomo e la sua vera natura. Il desiderio è attraversato dall’illusione di non conoscere l’esperienza negativa della mancanza. Un archetipo che dichiara nella morte prematura dei giovani la fine dell’Istituzione, il fallimento dello Stato.

Tra i versi di tutte e tre le opere citate sembra emergere una corrispondenza non solo metaforica ma anche psicologica tra descrittivismo epico ed elementi mitologici all’interno di un impianto narrativo perfettamente calato nell’attualità. Si legga in Olimpia: “In basso, dalla piazza di cemento circondata da abitazioni a terrazza arrivava il canto dell’umano a cui nessuno resiste”. E ancora, in Piazzale senza nome: “sangue eccitato dalla persecuzione/sangue scaricato nella malattia/dai morsi inferti nella carne/oltre o sopra la morte/digrignare di denti/febbre precipitata all’orecchio della capra/alla sua testa, nel lago della sera”. E in Inizio e Fine: “tutti i giorni erano caduti sul suo viso/le ore di tutto l’essere erano/invase dalla sete//nell’angolo spento/cercò il riflesso dell’oceano/l’aveva attraversato uscendo dalla madre”.

Che ruolo ha il mito nella poesia e nel linguaggio poetico contemporanei?

Il ritorno del mito nel linguaggio e nella poesia contemporanea è il sintomo di una nevrosi che non trova risposte nell’attualità e quindi riscrive, riafferma, una cultura fondativa che invece risposte ne ha date e continua a darle in un momento come questo in cui l’Occidente è minacciato da una fine devastante. Penso che il ruolo del mito nel linguaggio poetico contemporaneo nasca dalla necessità di confrontare e confrontarsi con un passato tragico che è tornato a investire totalmente il nostro presente. In Piazzale senza nome c’è però secondo me, una de-mitizzazione. È evidente che in quest’opera si compie un ritorno. La lingua di questa poesia si è messa alla ricerca di un’origine, all’inizio della vicenda, lì dove tutto è cominciato e il ritorno in quel luogo, in quella città di provincia, scopre una generazione di scomparsi, una generazione che ha sparso il proprio sangue sulla terra e della quale non si è saputo più nulla. Il ritorno, possiamo dire, si confronta con figure lacerate che hanno attraversato la tenebra che ne ha offuscato i volti, i nomi. In Piazzale senza nome c’è, all’inizio del libro, una presenza dionisiaca: la capra è un animale sacro che viene sbranato. Ecco, dunque, il sangue eccitato della persecuzione, il mordere, l’essere esposti… c’è quindi un rimandare al rituale dionisiaco, a una sofferenza ecceduta che supera il limite dell’umano. È una violenza che non parla, è silenziosa, nascosta, strisciante, perché la persona non è più persona, si è trasformata in un’altra che ha distrutto la mediazione tra l’uomo e la sua natura.

Il nome e l’atto simbolico e germinativo della nominazione sembrano irrompere nel complesso edificio poietico di Inizio e Fine: “la terra che/ nessuno/ possiede/ attendeva/ pretendeva, dall’inizio alla fine/ogni cosa che vive, il suo nome”. Si legga ancora: “gli avevano afferrato le gambe/lo costringevano a stare/in una posizione fissa/chiuso nel nome”.
Ci parla del sincretismo antropologico, culturale ed emotivo tra l’uomo e il mistero del nome con cui pronuncia e dichiara la sua esistenza?

in Inizio e fine c’è una convergenza antropologica e emotiva tra l’uomo e il mistero del nome. Per Derrida, “il nome è sempre già dato. Sempre già dato, un nome è anche solo tutto ciò che resta.” Il nome poi è l’origine del linguaggio, della parola, il nome che ci ha condotti nella vita fin dalla nascita sintetizza tutta la nostra esistenza, è la carta di identità della persona.   Ma il nome con il quale siamo stati chiamati è davvero il proprio è oppure no? E se il nome non è quello, con quale nome si chiuderà l’esistenza? Questa è la domanda che pongo in Inizio e Fine.

In uno stralcio della prefazione di Maurizio Cucchi a Inizio e Fine si legge: “La poesia di Luigia Sorrentino, come si conferma con forza in questo nuovo lavoro, si muove per sua vocazione nella linea della maggiore tradizione lirica europea del Novecento”. In effetti, la Sua poesia riesce nella difficile operazione di avvicinare il linguaggio lirico alto di certa poesia del secolo scorso (e di quello precedente ancora) allo stile più prettamente contemporaneo, spesso crudo e iperrealista. Leggendo i Suoi versi sembra di ascoltare l’eco della poesia metafisica di Holderlin e di quella filosofica di Schiller, con le inevitabili differenze storiche, linguistiche e speculative. Si intravede il misticismo politico di Celan sulla morte e il fervore epico e surrealistico di Campo, debitamente laicizzato.
Ci parla dei grandi poeti che hanno influenzato il Suo stile e ci definisce le caratteristiche del Suo linguaggio poetico?

Sono stata influenzata da tutte leletture che ho fatto fin da adolescente e che non riguardano solo la poesia. Un libro, in particolare, ha contribuito alla mia primissima formazione. Avevo 11 anni quando lessi “Il treno del sole” di Renée Reggiani. Frequentavo le scuole medie e la professoressa d’italiano ci aveva assegnato questo libro da leggere per l’estate.  La Reggiani mi aveva raccontato la storia di una ragazzina siciliana Agata, emigrata a 13 anni “in Continente”, a Torino. Le difficoltà e le disavventure che questa ragazza, figlia di braccianti, attraversò mi colpirono molto. Mi riconoscevo nella sua storia anche se era diversa dalla mia.
Mi accomunava a lei l’essere cresciuta in una provincia a sud di Napoli. Come Agata le mie prime conoscenze e i primi sentimenti di affetto li avevo provati per ragazzi e ragazze che vivevano che vivevano in famiglie poco agiate, alcuni dei quali sono diventati tossicodipendenti e la vita l’hanno lasciata sulla strada. La Piccola Amsterdam in quegli anni era “funestata” dalla droga, dall’elevato consumo di eroina, nuovo “business” della criminalità organizzata e per noi giovani non era difficile entrare in contatto con quella realtà. Il pericolo era dietro l’angolo, era qualcosa di inaspettato. Una storia affine a quella che aveva vissuto Agata.
Altre letture per me significative nell’età dell’adolescenza sono arrivate dagli stimoli che ho ricevuto al liceo classico dai professori di Latino, Greco, Italiano e Filosofia. Ho quindi approfondito Dante, fra i greci ho amato Eschilo, Sofocle, Parmenide, Euripide e naturalmente Omero. Avevo 17 anni quando ho letto pere la prima volta Nietzsche: “Also sprach Zarathustra” (ndr. “Così parlò Zarathustra”) su consiglio del professore di filosofia Massimo Leotta. In quegli anni leggevo molto Ungaretti. Conoscevo a memoria diverse poesie di Montale, di Sylvia Plath, Emily Dickinson. Leggevo a 19 anni per la prima volta “L’amour fou” di André Breton. Un’ opera che mi ha insegnato la connessione fra poesia e arte.
La folgorazione arrivò con Dino Campana, il poeta di Marradi, influenzata da Carmelo Bene e poi dal suo “Manfred” di Byron. Leggevo molto gli esistenzialisti francesi: Sartre, Camus, Simone De Beauvoir. Divoravo i libri che riuscivo a reperire nell’unica libreria che avevamo a Torre del Greco, il punto Einaudi gestito da Carmine Paino. Lessi “Ragazzi di vita” di Pasolini, “La noia” di Moravia, “L’isola di Arturo” della Morante. Poi con l’Università conobbi le librerie di Napoli e il mio scrittore preferito fra gli italiani è stato Giorgio Bassani. Nei pressi della mia facoltà ebbi l’opportunità di acquistare e leggere tutti i libri tradotti in italiano della più grande fra le scrittrici donna per me: la Yourcenar.
Quando conobbi Milo De Angelis a Milano lessi per la prima volta Marina Cvetaeva, Paul Celan, per la prima volta Holderlin nelle traduzioni di Marta Bertamini, poi arrivarono Proust, Kafka, Rilke.
A Napoli all’Università leggevo dai dattiloscritti che mi diede un amico i “Canti barocchi” di Lucio Piccolo e ricordo anche, sempre un dattiloscritto che girava fra i giovani universitari… era di un certo Erri De Luca: “Non ora, non qui”.
Intanto cominciavo a conoscere i primi poeti fra i contemporanei, e capii che quello che succedeva a Milano era totalmente diverso da quello che succedeva a Napoli o a Roma in poesia.
Io mi incamminai verso una poesia che prendeva le distanze dalle avanguardie, anche se devo ammettere, sono stata molto condizionata da loro, perché Napoli era avanguardista. I primi poeti che ho conosciuto lì, facevano la poesia visiva, oppure si avvicinavano a forme di espressione artistica in cui la poesia veniva proposta in scena, in teatro.
La caratteristica del mio linguaggio poetico credo sia la necessità – Ananke – della quale ho parlato in un pometto pubblicato su rivista molti anni fa. Per me la poesia è mossa da un destino. Avverto la necessità della poesia come una forma ellittica che mi prende e mi trascina là dove vuole… in un lingua in cui i versi sono organizzati in strofe di diversa lunghezza. Versi sciolti, endecasillabi, settenari, novenari, che hanno un suono interno che produce una musica dodecafonica.

Il femminile affiora nella Sua poesia in svariati sembianti e molteplici simbolismi. Si legga in Olimpia: “la donna ha la bocca del dio/e chiede perché hai fatto questo?”. E ancora: “tutto stava su di lei/e lei sosteneva tutto quel peso/e il peso erano i suoi figli/creature che non erano ancora/venute al mondo/lei stava lì sotto e dentro”. Su Piazzale senza nome si legge: “– si è/sottomessa/a una forza sommaria/l’imperio potente terrorizza la madre/la sua vita interiore era totalmente/intrappolata “.
Ci descrive la funzione del femminile (che non sempre coincide con la donna) nella Sua poetica?

La funzione della mia poesia potrebbe corrispondere con la preposizione “In” e del “Con”. Sono sempre in relazione soprattutto con la preposizione, in, che indica uno spazio, ma anche una condizione interiore che si affaccia nella realtà, intro l’impegno con la parola della poesia che mi assorbe completamente. Non scrivo per me, scrivo per comunicare ad altri quello che viene da me e dalla relazione con il mondo esterno.
Credo che la lingua della poesia sia una lingua che esprime una condizione neutra, né maschile né femminile, ed è questo che mi consente di scrivere in una lingua che non sempre coincide con quella di una donna, ma con un’identità neutrale, persuasiva, e questo la può far apparire femminile.   
La deità che maggiormente ricorre in Olimpia come essere femminile è Estia. Una figura archetipica che è dentro la casa, seduta accanto al focolare domestico, ravviva la fiamma. Il nome Estia o Vesta proviene probabilmente da una radice indioeuropea vas, abitare. Estia è un’essenza vivificante, illuminante… In Olimpia è La Permanenza, colei che permea tutte le cose e le abita ed è per questo che è distante dal limite. Estia è la vestale. Eterna è l’attributo a lei più comune. Estia è anonima, è una persona potente, non una individualità, una presenza terrena, oppure, un territorio urbano, un numen, piuttosto che una divinità. Nei fregi greci viene affiancata a una figura mercuriale: Hermes. Non hanno attributi comuni, ma sono complementari. Estia sta dentro, Hermes fuori. E’, questa seconda figura, il correlativo oggettivo di Estia: Hermes è la figura alata che sorveglia la porta, la soglia… sta sul limite, sul confine, su un territorio incerto e precario…

In Olimpia la presenza di cori si alterna alla narrazione in una prima persona non soggettivizzata che si rivolge a un altro da sé, anch’esso non identificato. “Sostenemmo che fummo/ciò che non eravamo ancora” è l’incipit di una poesia della sezione “Il giardino”, a cui seguono dei versi in prima persona singolare: “ti seguivo nei campi/rapido uscivi dal retro/il vento liscio accorreva alla tana//ecco la luce, tocca/la tua vita”.
Come si relazionano, tra loro e con l’io autoriale, le diverse voci narranti all’interno del poema?

Le voci all’interno del poema sono diverse, ma tutte toccano la condizione umana. “Sostenemmo ciò che fummo/ ciò che non eravamo ancora”. Sono delle voci che si rincorrono e si alternano, come i tempi dell’esperienza della vita. Sono creature nate da una sorgente millenaria. Hanno un sentire oceanico, sono consapevoli di ciò che furono, ma anche di ciò che ancora non sono. Queste individualità sono espressione di un richiamo forte che non può essere messo in discussione, non può essere rinnegato. Sono voci e figure che chiedono la nostra abilità di comprendere e riconoscere la lontananza dal passato, e ci chiedono di affiancare il loro desiderio illimitato di riconoscere ogni possibilità a venire che possa migliorare la loro condizione esistenziale. Queste figure mitiche in ogni forma e aspetto che ricorrono in Olimpia sono state il mio modo di vedere e interpretare l’umanità, il sentire umano.

La comune esperienza del ciclo esistenziale del singolo individuo sembra indagata nella sua trasfigurazione in una categoria plurale e collettivizzante. “La transizione nella morte da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese, avviene lo smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo stati” (Olimpia).  E ancora: “L’ora espulsa dalla febbre ci diede/ la misura/ l’estraneo si trovò nella propria città/non sapeva come c’era arrivato” (Inizio e Fine). Da Piazzale senza nome si legge: “– siamo stati traditi/ dagli organi vitali –/ la durata non ci tocca più/ svuota le nostre vene/ la giardiniera inghirlandata/ ci arresta tra soste d’amore/ guardandoti il volto distende/ l’impronta della morte è svanita”.
Ci parla di questa compenetrazione tra dimensioni differenti dell’esperienza umana?

Credo che ogni mia opera stia a sé, ma ognuna entra in modo diverso nella dimensione dell’esperienza umana.  Olimpia è un’opera corale, in cui tutti i personaggi portano luce, ma anche ombra, in una continua contrapposizione di forze.  In Olimpia la poesia è uno spazio dentro il quale si ferma il nostro operare quotidiano. È un punto di raccolta, un luogo perfetto per ritrovare l’armonia del nostro essere al mondo. La poesia esige questo spazio, questa permanenza nel luogo della poesia. È la permanenza a generare il transito nel morire. Il corpo è in “un grumo di forze distese”. Ed è chiaro nei versi che hai citato, che il ritorno genera spaesamento, “l’inversione”. Perché nella morte c’è sempre qualcosa di arcaico, come un rito orfico che ci risucchia verso l’origine. Non è un caso che questa prosa poetica che hai citato ha per titolo “La deformazione”. E inizia con questi versi: “Sempre di più il morire.” Versi che introducono il lettore alla sezione successiva che ha per titolo “Il sonno”.
In Inizio e fine siamo in un luogo di attesa, siamo in una fine, che è anche un inizio. Siamonel Thaûma, nella meraviglia e nell’angoscia, “nell’ora espulsa dalla febbre”, un’ora in cui si è infermi, un’ora in cui la malattia ci rende stranieri a noi stessi: la strada, la città, diventa un luogo sconosciuto, il ricordo è offuscato. Siamo nell’opacità delle cose ultime, siamo entrati nell’ordine della fine. Qui il linguaggio è avvolto da una tonalità affettiva nel refrain del nome del quale ti ho detto prima.
Da Piazzale senza nome hai citato dei versi tratti dall’ultima sezione: “Quando hai smesso di respirare”.  In questa dimensione la morte è avvenuta. Non c’è più nessuna possibilità di vita, “la durata”, che è l’intervallo di tempo in cui si sviluppa l’esistenza e l’esperienza umana, si è conclusa.  
Queste tre dimensioni, che appartengono alla condizione umana, vengono espresse nella mia poesia in una lingua e una forma diversa, ma certamente stanno tutte e tre in un discorso poetico analogo e complementare.

“La condizione umana chiude/in sé la forma del tempo/che non vuoi più” (Olimpia): un altro aspetto che sembra caratterizzare la sua poesia è l’acquisizione di una prospettiva ribaltata, l’inversione della retrospettiva, la puntualizzazione della finitezza umana dalla visuale di una possibilità etica e sociologica di rigenerazione in uno spazio “ancora da varcare”.
Ci parla di questo consolante possibilismo che traspare dai Suoi versi?

I versi da lei citati sono tratti da Olimpia che sotto un certo punto di vista è un’opera consolatoria. Olimpia ci dice dall’interno, che c’è sempre un’altra possibilità, un altro punto di vista. C’è, ad esempio, la possibilità di unire gli opposti, di conciliarli con un atto di unificazione. Ma come dicevo prima, c’è di fondo, un’essenza mercuriale che provvede a spostare il confine, affinché sia data all’umano, appunto, un’altra possibilità, e quel confine “spostato” è per chi è al di qua, ma anche per chi è al di là del confine.  “I popoli appartengono alla città che li ama” dico in un verso, perché la città di Olimpia è ospitale, benevola, dà la possibilità a chi ha perduto la patria, di ritrovarne un’altra. C’è poi qualcosa di misterioso che tiene il lettore in bilico sulla soglia: l’attraversamento potrebbe causare l’irreparabile, ma non è detto apriori, può anche essere che non sia così… In un altro verso si dà all’umano altro tempo, ed ecco un’altra consolazione… lo spazio ancora da varcare significa che non siamo in una situazione irreparabile, non tutto è perduto. E siamo qui, certamente in un altro sentimento consolatorio, che offre una nuova possibilità. 

Le Sue opere sono accompagnate da prefazioni, postfazioni, note e recensioni da parte di grandi poeti e intellettuali del nostro tempo. Ci racconta della rete di forti legami tra voci autorevoli della poesia contemporanea e ci fa dono di qualche aneddoto al cui ricordo è legata?

Il dono più grande fu quando completai la stesura di Olimpia. Milo De Angelis che aveva letto il libro mi disse che voleva scriverne la prefazione. Io ovviamente fui profondamente felice perché per me le sue parole, che non posso e non intendo rivelare qui, furono importantissime. Nella Prefazione De Angelis, un grande maestro per me, definì Olimpia “il libro della mia vita”, un’eredità pesante da gestire.

La natura, nelle sue opere, sembra una presenza costante, un miraggio imprescindibile e un linguaggio con cui l’uomo comprende e, successivamente, interpreta sé stesso.
Cosa pensa che possa rappresentare, ancora, la natura nella sua trasposizione letteraria attuale?

La natura nei miei versi credo diventi il transfert di una condizione esistenziale che si universalizza nel tragico. Si tratta quasi sempre di una natura “umanizzata”, che si fa portatrice del dolore, ma anche della gioia dello stare nel mondo.  Il benessere della natura o il suo malessere dipende da noi, è la natura soffre la nostra invadente presenza. Da questo punto di vista penso che la natura nei miei versi insceni la perdita, ma anche il desiderio di un futuro. A esempio in Olimpia in Giovane monte in mezzo all’ignoto c’è questo verso che dice: “tace su tutto chi possiede/ quello spirito del futuro/ sopra le rovine”. In Inizio e fine nella prima poesia, c’è una figura umana che tenta l’impossibile e i versi sono questi: “l’ultimo giorno di agosto//legava a un filo l’odore della terra/ sottraendola alla perdita”. In Piazzale senza nome la sezione “L’albero della violenza”, è espressione di una violenza che ha radici profonde, che ramificano, germogliano e producono altra violenza. C’è poi in una delle ultime prose dal titolo: “La strada, il ritorno” in cui si fa riferimento al “bosco dei pini agonizzante”, a “alberi scheletrici”, a una natura morta, spacciata… Ma si dice anche che: “la fine era lì, dove qualcos’altro cominciava”.

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