cura e introduzione di Francesco Terracciano
da Porto Franco (Arcipelago Itaca, 2022)
I
Porto Franco, Il recente lavoro di Giuseppe Martella, comincia con un rimando esplicito a un sonetto di Dante, la Poesia LII delle Rime composta prima della Vita Nova. Dante parla in termini allegorici di un viaggio -che sogna di intraprendere con Guido Cavalcanti e (forse) con Lapo Gianni- ma si riferisce pur sempre a un viaggio “mondano”, per quanto immaginato come una fuga dalla realtà attraverso un incantesimo; vi ritroviamo il tema provenzale e occitano del plazer, le cose belle per cui vale la pena vivere, opposto all’enneg che rappresenta, invece, l’elemento che rende l’esistenza noiosa o spiacevole. Il tema è la disquisizione d’amore in cui si elencano cose desiderate, gradevoli, che ci si augura di trovare, la vita cortese distinta e lontana dalla vita reale.
Nell’opera di Giuseppe Martella, diversamente, il vascello e l’incantamento conducono subito alla relazione d’oggetto, ad una visione più pensosa e aderente al reale di quella stabilita da Dante, la Das Ding sempre estranea se non addirittura ostile: così, il Merlino di Martella ha il tratto del selvaggio e del folle -in qualche caso, diabolico- che pure è presente nella letteratura gallese come controcanto rispetto alla figura idealizzata, un personaggio distinto e opposto al mago buono del ciclo di Re Artù, inquietante, imperscrutabile, ma più consonante rispetto alla vita, il personaggio di Myrddin Wyllt.
La materia emerge dal soggetto, riporta il lettore nella dimensione della verità, e il viaggio è finalmente oltre il confine dell’io e di ogni effetto immaginario, un viaggio in cui ci si spartiscono le cose, arrivando a “spezzare il pane insieme, dimenticando Iddio”
II
La poesia di Martella, che approda ad un esito particolarmente felice, non corrisponde -e non intende parlare- alle illusioni e al disincanto di chi abbia attraversato lo spazio di un’esperienza umana ricavando la convinzione di aver fatto abbastanza, considerandosi arrivato o al riparo, ma è devota, piuttosto, al mito e alla re-incarnazione, al segno dell’intensità e dell’amore che ritiene più forti della morte.
La sua poetica, così come la maturità intellettuale e critica frutto di una ermeneutica che trae origine dalla frequentazione dei classici greci come degli esiti più rilevanti della poesia moderna- non prende su di sé il segno amaro di una sconfitta inferta dalla vita, non contempla la possibilità del ripiegamento in un mondo il più possibile lontano, ma spinge ad intraprendere ancora un nuovo viaggio, a sperare ancora in altre scoperte.
Come ho scritto Natalia Ginzburg a proposito di Pavese in “Le piccole virtù” “gli restava dunque di conquistare la realtà quotidiana; ma questa era proibita e imprendibile per lui…; e così non poteva che guardarla da sconfinate lontananze”.
La grazia, in Giuseppe Martella, è comprendere che è impossibile entrare dentro il groviglio dell’uomo, ma è, al tempo stesso necessario evitare le paludi dell’animo in cui nessuno può salvarsi: “bisogna mischiare i colori / prima di trovare la tinta giusta / celeste blu blu blu celeste / e sfumare sfumare dimenticare /annegare le forme nei colori”.
III
Il titolo di un’opera in versi, è opinione di qualcuno, rappresenterebbe il solo momento in cui un poeta parla realmente in prima persona. Lasciando da parte la possibilità che tale assunto contenga elementi di verità, credo si tratti di una traccia importante, di un indizio che si incide come un segno o un avvertimento all’interno di una mappa, in una personale cartografia del compimento.
Nel nostro caso, il termine porto franco designa una spedizione di merci in cui a pagare per il trasporto è il mittente; il rimando è anche al Porto Franco di Trieste fondato dall’imperatore Carlo VI nel 1719, diventato il porto dell’Impero austro-ungarico, che conserva a tutt’oggi le peculiarità e i vantaggi di un impianto normativo sui generis, derivanti dal mantenimento della legislazione speciale e dall’equiparazione di tutte le bandiere: tutte le navi che attraccano nel Porto Franco sono equiparate a quelle di bandiera Italiana e beneficiano automaticamente del pagamento ridotto dei diritti marittimi.
Sembra quasi che l’autore suggerisca la possibilità di far iniziare o terminare il viaggio di cui parlavamo in una zona dove è consentito acquisire o acquistare qualcosa a un costo minore di quello che si sosterrebbe altrove, contro ogni legge di mercato o di opportunità commerciale.
È una teoria del mito che offre una nuova possibilità di riscatto, che non accetta di essere disattesa e di lasciare spazio al nichilismo o al disfacimento inteso come programma. Lo sforzo poetico di “ridurre a chiarezza” il mito, impossibile attraverso le modalità consuete e nel ruolo dato alla scrittura, quello di portare nel logos l’irrazionale mitico, non accetta un’altra insussistenza.
Qui si ritrova la scelta di Pavese, la sua incapacità di accettare il quotidiano, la poesia come strumento che penetri le profondità dell’esistenza (l’amore, il destino, la morte) fino a spiegarla, la discesa gioiosa nell’Ade, Orfeo che si volta -consapevole del peso del suo gesto e della sua irrevocabilità- non per riprendere Euridice ma per cercare sé stesso. In tal senso Orfeo rappresenta la poesia, il sangue e il respiro della Storia, mentre Euridice il Mito, il segreto prodigioso.
In queste condizioni la nuova fenomenologia del poetico, che nasce come una pianta spontanea dal métier de la critique, la partecipazione alla storia collettiva attraverso i relativamente (pochi) anni di un’esistenza umana, rappresentano l’unica via per affrontare la complessità del reale, per cercare un contatto con l’altro da sé, affidando alla ποίησις del nuovo mondo l’unico ruolo possibile, il fare dal nulla che deve confrontarsi col Nulla:
“In altra lingua / in questo beato angolo di mondo / in questo già pagano paradiso”.
Per ipotesi
Ma sì, ma quando, ma poi,
se tutti noi
fossimo presi per incantamento
e trasportati indietro e poi in avanti
fuori del tempo e dentro,
presi e sorpresi dai futuri istanti
indifesi
e prendessimo le cose con i guanti
al fine,
e oltre il confine dell’io ce le spartissimo
spezzando il pane insieme,
finalmente, dimenticando Iddio.
Guancha
Svestita di pelle di capra
di vello abbronzata regale
andatura, la dura scorza sottesa
al mallo suo tropicale
smanetta sul molo la sua bicicletta
fanciulla dagli occhi veraci
dagli sguardi audaci, filanti
dai morbidi fianchi allenati
sugli scoscesi tornanti dei monti
scavati di strade sterrate
la stessa maniera di roccia che piega
sui solchi di rughe la traccia
del vento carezza, le solca la faccia.
Che fare?
Prendere la meraviglia della cosa
– scartare il resto –
scartare come un fagotto, o come
un ostacolo che ti si para innanzi
all’improvviso e istanti dopo
lo hai già superato: scartare –
scartare ciò che hai una volta incartato
con cura
perché rimanesse ben riposto –
come una speranza che ancora dura
pensa
come un cartoccio di paranza fresca
che ancora sa di mare –
e attende finché dura la sera
di finire, nell’olio buono della tua frittura.
Sogno
Ed è un complimento che ti faccio
– presa la misura –
hai battuto un chiodo tanto
sul legno come sul ghiaccio
– testardo –
Infisso, il primo ha retto l’urto
e il secondo ora si incrina
si rompe e inonda
questo strano mondo
dove come prima
si alzano in cielo
nella brina dell’Alba
uccelli di rapina
Spiracolo
Si smista tutto ciò che rode dentro
in serie fossili, mobili, disgiunte
e non è che smetta di rodere tutt’altro
tuttalpiù
arrota i molari sulle scapole
scandisce i dattili, le dita mutile
creature mitiche che danzano come
di dentro a una bolla di sapone
un solfeggio di spuma, uno
spiracolo
una breccia o fenditura fra la roccia
e il mare indocile di spuma
un miscuglio di verde e di arenaria
di sogno e aria e sogno e ancora
e ancora e ancora.