di Lorenzo Fava
per L’ora delle verità (Pequod, 2023)
postfazione di Giorgio Ghiotti
fotografia di Dino Ignani
“Se il primo verso è un dono
il lavoro è finire, arrivare alla resa
restando sospesi nella giusta penombra
mentre la verità setaccia i versi,
i versi rastremano le parole,
le parole trovano una loro musica
e la musica prova a non cadere.”
Appare come una dichiarazione di poetica questo testo, che apre “L’ora delle verità”, di Simone Zafferani, edito lo scorso anno da Pequod. Spesso mi interrogo sui significati, espliciti e intrinseci che un primo testo programmatico può avere nella direzione che un libro prende o, se non di direzione si potesse parlare, quantomeno del campo di indagine che il libro sonda. Non conosco Simone, non ho mai letto suoi versi prima e non conosco uno dei suoi pensieri. Eppure, in questo lavoro vedo una larga fetta di quello che ho sempre inteso come ricerca poetica. Chiariamo: a mio avviso Simone Zafferani è pienamente un lirico, uno che nei versi cerca l’accensione vitalistica che la poesia porta con sé. La sua voce, seppur controllata, educata, modulata sul canone, contemporaneo e tradizionale, con cui si confronta, è pienamente l’espressione di un io che con la realtà dialoga, talvolta colloquialmente, talvolta – a mio avviso, nei testi più riusciti – riesce a rompere la barriera della distanza e si fa portavoce di un’esigenza espressiva che porta le parole a grandi altezze, a voli non pindarici, totalizzanti, al grado più alto della significazione che la lirica tocca. D’altronde, se l’impianto musicale dei versi si rifacesse ad una lettura del testo poetico come segni fonici delle infinite possibilità che la lingua offre, i versi di Simone “suonano”. Lungi da me tracciare anche solo un abbozzo di teoria di come funzioni lo strumento voce, di quale sia la natura della creazione poetica quando questa riguarda il significante dei termini, anche private del loro significato. Il problema qui non si pone in quanto trovo questi testi – ed è un grande punto di valore – molto coesi. Tutti si reggono presi singolarmente, cosa ad oggi assolutamente non scontata, quale che sia l’autore in questione, dall’ultimo dei ragazzi agli autori viventi ormai canonizzati.
“È un coltello a volte la città
che imprime sulla pelle le sue architetture
lo stigma della meraviglia come una colpa
la fretta di passare a un’altra vista […]”
Sento sguardo, in questi testi. Un occhio magrelliano, una percezione visiva nitida, un dialogo con le cose che prende le mosse dalla (innata?) capacità dell’autore di figurare e trasfigurare, comunicandoli, dati reali, tradotto nello sguardo unico dell’autore che, comunicando, trasforma in occasione i dettagli della realtà, spesso collocabile nella Roma d’oggi, che pure ai più possono passare per, se non inosservabili, quantomeno superflui:
“Non è mai stato così affatato il Tevere
come stasera che lo vediamo dal Ponte Sublicio.
Una sera di gennaio segreta.
Raggiunto il punto esatto da cui guardare in basso,
d’improvviso siamo aruspici, marinai di fiume […]”.
Silvia Bre, punto di riferimento sia per Simone che per chi scrive queste righe, è un modello. Come si riflette la scrittura di questa grande autrice dei giorni nostri, destinata a rimanere nella storia della nostra letteratura, sulle parole di Simone? Credo che la chiave di lettura stia nel verso citato da Simone in epigrafe al testo di pagina 18: “Ma pensare, pensare è affrancarsi”. Il rapporto con la parola poetica, che a mio avviso si nasconde non solo nelle prime liriche del libro (dove è testualmente abbastanza esplicito), ma anche nelle altre sezioni, è uno dei nodi della poesia di oggi. Toccare aspetti metatestuali in poesia sembra essere diventato quasi un tabù. Perché? Perché parlando dei versi, in versi, si rischia di cadere nella più facile delle retoriche. Simone Zafferani riesce invece a parlare con levità della questione poetica. Come ricorda Giorgio Ghiotti nella sua postfazione, “C’è poco della rivelazione fulminea, perché il senso messo in campo da Zafferani proviene da molto lontano, e mentre apprende ciò che ha davanti come per la prima volta ricorda e rammemora un passato potenzialmente sterminato perché davvero, come scrisse Baudrillard, credi di guardare e ti rammenti”. Qui sta forza la più significativa comunanza di vedute che credo di avvertire con Simone, pur non conoscendolo se non tramite questo libro: scrittura come autoindagine, scrittura come conoscenza di sé stessi e, attraverso questa, tentativo di leggere la realtà circostante. La rivelazione c’è in effetti, ma arriva dopo un lungo lavorio, si manifesta non come epifania di pirandelliana memoria ma come esito di un percorso che, riprendendo nuovamente Ghiotti, “[…] è l’approdo del poeta a una maturità espressiva oltre la quale si potrà solo avanzare, facendosi carico di una responsabilità maggiore a ogni passo.”
“Torna da me stanco ma felice.
È in questa debolezza che ti voglio
dove il pensiero turbina e si spande
sostenuto dall’ultima conquista
ma arreso a un ricordo incerto e aggrappato
alla prossima incombenza da sbrigare.
In questa circostanza singolare,
distratto dal bisogno contingente,
l’amore si alimenta di se stesso,
noi siamo marginali e ci è richiesto
soltanto di vegliare.”
Oltre alla registrazione di paesaggi e dei dati della realtà circostante, mi piace come la lingua di questa poesia si rapporti con l’altro, intendendo cosa è vicino, sia esso un concetto o una persona. Una poesia sincera, che non ha paura – anche questo da non dare per scontato – di annotare la sensazione nella sua delicatezza, l’esplicazione di un’indole oserei dire penniana, sia nella chiarità che nella dolce presenza. Sono impressioni, scrittorie e sentimentali, di un valore umano che resta stretto alla sua essenza, quella dell’onestà: “la cosa che rimane da fare ai poeti è la poesia onesta”, disse qualcuno a cui oggi si deve molto più, in poesia, di quanto appaia.