di Gloria Riggio
n.d.r. Per introdurre il testo che presentiamo ai lettori, proponiamo parte dell’introduzione di Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale (Feltrinelli, 2004) di Alessandro Dal Lago
Si potrebbe pensare che nell’epoca della cosiddetta globalizzazione l’uguaglianza di tutti gli esseri umani e il loro diritto a muoversi liberamente per il mondo e per trovarvi un’esistenza decente siano principi ovvi, anche se privi di una formulazione netta. Ma non è così.
L’umanità viene divisa in maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali e in minoranze di stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e di fatto. Grazie a meccanismi sociali di etichettamento e di esclusione impliciti ed espliciti, l’umanità viene divisa tra persone e non-persone.
Invece di concepire la diversità come pluralità, articolazione di una condizione umana, comune e ugualitaria, il differenzialismo ha spesso ipotizzato la separatezza culturale, ha mitologizzato le sue radici culturali e nazionali.
[…] i migranti sono un nemico pubblico ideale per ogni tipo di rivendicazione di “identità” nazionale locale o settoriale. Per il patriottismo urbano o di quartiere sono criminali che minacciano la sicurezza della vita quotidiana. Per il patriottismo regionale o cantonale, alieni che intorbidano la purezza etnica. Per quello nazionale, stranieri che minano la compattezza della società. È quasi superfluo aggiungere che si tratta di nemici simbolici (che assorbono i bisogni più disparati di ostilità) e strutturali, necessari per la formazione di identità, di quel “noi” che oggi si esige a destra o a sinistra
Le donne in nero sul ciglio delle case su questo lungomare di lapidi e lampare prefiche di un funerale la cui predica è un'omelia di canto di cicale, di spigole tornate ad abitare il mare, di mangi-me questo sole vestito a celebrarne la funzione di fiaccole, sclere d'ittero, abboccare agli ami del vento, di corpi ceduti nell'ultimo passo, all’ultimo stento di sete, di processioni sui pontili e piedi affondati nella sabbia, di occhi scavare le mani in cerca della scabbia Le donne in nero sul ciglio delle case su questo lungomare di lapidi e lampare continuano a pregare e mentre sgranano il rosario come un tirare di reti il pescatore le sento intonare il coro d'un lamento, il pianto d'ogni madre quanti se ne prende il mare quanti se ne prende il mare e cosa ci rende il mare e come ci rende e come ci arrende il mare - Dio, se c'è la prova di un dio è l'approdo Dio, se c'è la prova di un dio io ho una goccia di acqua nell'orecchio che fa dal timpano un percorso desueto all'inverso fino a un lavacro di piombo e d'amianto, se c'è un mare anche in me, dio, è un approvvigionamento per il pianto io ho una goccia dentro l'orecchio, dio, che mi erode l'udito e lo spoglia del suono del mondo, è come un lavabo che perde di notte, sostituisce le onde sonore col suono delle onde e mi prende la testa, la riempie di acqua e mi scioglie da dentro, e le vene diventano alghe, e la pelle la mangiano i pesci, ho una goccia che dalla faccia mi porta indietro nel tempo fino al momento più antico del mondo in cui l'acqua copriva la terra e adesso che affondo, dio, penso il mare non è mare, dio, è una placenta di madre, mi tiene in sé, mi gesta, questa è l’attesa per un’altra vita e non sono più io a piangere, è il mare a entrarmi dentro le orbite delle palpebre, non c'è più una luce, forse un ultimo raggio a farne la salma, e tutto è una calma, le urla le abbiamo condonate alla risacca, adesso ascolta una voce d'ovatta, un'apnea di silenzio, sontuosa rovina, balsamo, sacro convento. Ascolta, una voce d’ovatta, un’apnea di silenzio, sontuosa rovina, balsamo, sacro convento, ascolta. Mare fammi chiglia e pancia di barca che viva da culla, mare fammi curva di onda e ora feconda fatta di braccia a unire altre braccia, mare fammi zolla di terra finale, fammi sereno e tratto sul bordo del tuo iato col cielo Mare fammi figlia e madre eterna Fammi fanghiglia, fammi battigia, fammi corallo, fammi bonaccia e fammi coraggio e mare d'agosto gentile, brezza marina di giovane aprile, fammi un aprirsi di sterni e che il sale mi sverni le vene da questi cristalli di neve venuti a ostruirmi col freddo le arterie, fammi altre vie da percorrere che in mare non c’è strade, fammi stele incisa con le voci annegate nel negare la voce, fammi trattare al tavolo ovale del fondo di fango e di sale, con chi ha deciso che c'è un sangue che sporca le mani meno di un altro, fammi varco oppure fammi resa, che il mio capo poggi in te la sua nuca, il suo sonno e la sua disperazione, E mentre cado fammi gesto che sfili l’ago lasciato a spillare ogni infibulazione morale, E in una notte che non basterebbero dieci lune a farne l'esodo avremo milze divenute conchiglie, e intestini fatti barriere marine a ospitare patelle ed anguille, saremo il capitolo spurio della vera odissea, faremo del mare una cura, una farmacopea e di tutte le cose nel mare pensate perdute faremo un tesoro e a guardia due teste di moro interrate in radici di iodio Noi, ma tu tu ascolta, mare se ogni figlio morto ti rende in lacrime il sale, ascolta questa preghiera allattata al seno del maestrale Ascolta: sii buono mare, sii buono, questa volta.