cura e introduzione di Ilaria Palomba
da Di ogni mio corpo (Ensemble, 2022)
n.d.r. Con questo articolo, inauguriamo la rubrica Bordi, a cura di Ilaria Palomba
Bordi
n°1
Bordi è una rubrica di poesia che sconfina. L’idea di bordo è quella di non appartenere a un contesto, di scrivere solo per non morire, come se fosse l’ultima cosa da fare prima dello smembramento. Non giochi linguistici, neologismi, precisione metrica, sterili sperimentazioni. Solo bellezza, ritmo, musica, necessità. Non esistono scritture necessarie, siamo tutti superflui, alcuni non lo sembrano, ma lo siamo tutti. L’unica necessità nella scrittura è quella di non morire. Che la scrittura poetica sia l’ultimo gesto da sopravvissuti, annullamento dell’ego, raschiare il fondo, raggiungere un grado di spersonalizzazione, non significa sciatteria, è l’opposto: l’essenziale raggiunto nella vertigine, la vicinanza al fuoco fino a bruciarsi. Disfare le
regole senza contestarle, solo, raggiungere un altrove dalla regola, un altrimenti dalla bella pagina, dall’epopea stilistica che porterebbe a definire l’io dell’autore. Sottrarre invece ogni definizione, errare. In questa rubrica cercherò di portare alla luce ciò che eccede, non si accoda e non si accorda con l’andamento del mondo. Chi è al margine o fuori, purché sappia come dirlo, troverà qui una casa. Bordi sarà un laboratorio dinamico di voci, una partitura senza confini. Che sia, come voleva Blanchot, una scrittura del disastro, un disapprovarsi e disdire, non saper più scrivere, rinunciare al dono e al nome.
Di ogni mio corpo di Olivia Balzar (Ensemble, 2022) è un libro-rito, non scevro da riferimenti musicali assolutamente rock: Lou Reed, Ramones, Creedence Clearwater Revival, Doors e Neil Young.
Olivia Balzar è un’autrice scomoda per profondità di sguardo e temerarietà nell’utilizzo di un linguaggio immediato, pulsionale, anti-intellettualistico. Una strega postmoderna che si aggira tra il più onirico Sbarbaro e la più sanguinaria Pizarnik nei labirinti dell’occulto, racconta l’invisibile con una grazia a tratti straziante. Tra le rivelazioni liriche troviamo gli amori mancati, quelli eterni cari ai poeti mai sazi di realtà, consacrati all’adesione smisurata all’immaginario, senza sconti. Ogni incontro qui è un buco nero o una notte che non vuole finire, dove tutto va preso di corsa e nulla viene trattenuto poiché ogni cosa è rilasciata all’effimero. La sua poesia è questo effimero che scatta fotografie ai fantasmi senza poterne mai dimostrare l’esistenza: il fantasma dell’infanzia, il fantasma dell’amore, il fantasma dell’adolescenza. I veri poeti non crescono mai, come bambini cercano dall’altra parte dello specchio, e in quel fondo non trovano sé stessi, non si trovano mai, ma raccolgono per un istante le voci eterne del mondo, le voci indicibili dei luoghi e dei misteri che lasciano tracce. Di ogni mio corpo è un tessuto di tracce che si intrecciano e ci lasciano senza difese.
La mia pelle è la tua pelle i tuoi demoni sono i miei demoni la tua oscurità è il mio mondo. Mi nutro del buio che divora la tua mente. Liberami dal baratro della tua assenza.
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La pelle che muta, il tempo che passa, le rughe che disegnano un volto diverso da prima. Vivi che il tempo è tiranno e inghiotte le anime di chi non ha osato.
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Della prigione che abito ne conservi la chiave e da anni la tieni in un luogo segreto. Ho indossato la pelle di chi mi ha smembrata e ne ho acquisito la vista. Ho chiesto agli dei più volte di fermare il tempo mentre aspidi nascevano dal mio cervello. Ho chiesto alle ombre di smettere di popolare le mie notti. Ho pensato spesso al laghetto e al silenzio di pomeriggi lontani nel tempo. Hanno ucciso una donna lungo la strada, ricordi? Sono un buco nero che inghiotte ogni cosa, dici. E smetti di esistere.
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Nel deserto ci sono uomini che posseggono la conoscenza dell’infinito. Noi danziamo nel fuoco al limitare del tempo. Non c’è più giorno e notte, ma una dimensione altra tutt’uno col cosmo. Il crepitare del fuoco le mie mani tra i tuoi capelli e il respiro del mondo che si intreccia col nostro. Danziamo con gli spiriti alla luce della luna. Essi viaggiano nel vento oltre le porte, altri mondi. Varchiamo la soglia dell’ignoto. Attraversami.
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Ho partorito i mostri che mi hanno sbranata. Sono scivolati dal mio cervello Hanno scavato il mio ventre. Tra le cosce sangue di aspirazioni abortite, desideri inespressi e tutta la brama di essere. Noi non esistiamo. Siamo solo pensieri fatti carne nati dai sogni lucidi di colui che muove ogni cosa, allucinazioni da anestetico dissociativo, nient’altro che ombre che attraversano l’inconoscibile. Nella sola ammissione del mio desiderio ho espiato le colpe dei padri. Distruggimi.
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L’uomo appeso a testa in giù al ramo dell’albero mi ha detto «Scegli una carta». L’ho fatto, è uscito il Matto e non sono più la stessa che ha varcato la soglia del bosco. Lui mi chiede di non aver paura. Ci sono io, dice e io con lui mi addentro tra le ombre, dove i rami diventano braccia e i tronchi scheletri e la foresta canta una nenia. È solo il vento, mi dice. Io so che è la strada sbagliata, ma noi corriamo prima che la notte si faccia giorno, il sogno si faccia carne e non ci sia più nulla in cui sperare.
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Certe notti ascolto Lou Reed per non farmi inghiottire dal tempo che sfugge e tutto si ferma. Nella mia mente il Greenwich Village, come lo immagino, si fonde con ricordi di vite vissute, loft fumosi, corpi e sguardi di persone mai esistite. I passi di un’ombra nel buio, tacchi a spillo e trench fino alle caviglie, attraversa la notte. Il buio è suo padre, ha il trucco sbavato di sere che finiscono all’alba in luoghi segreti. Ha lo sguardo di chi non conosce sé stesso e lo ricerca in chiunque la prenda per mano. Era la notte ad attenderla, non doveva far altro che cadere in braccio alle stelle, corteggiare la luna e trovare la strada in fondo a un dry gin.