Biglietto di auguri. Per il compleanno di Biancamaria Frabotta

a cura di Giorgio Ghiotti
fotografia di Dino Ignani


Partire dal paesaggio. Sono rimasti in pochi, “i troppo pochi poeti”, a dare voce oggi alla natura. Al circostante. Ed è strano, perché tutti siamo a nostro modo “impaesati”, soggetti dello stesso quadro. Qualcosa di antico si agita nella poesia quando smette i panni del rovello mentale e si concede l’esercizio della contemplazione.

Allora, una voce. È quella di Biancamaria Frabotta che dice “vieni, sediamoci qui, è la mia panchina preferita, la panchina della poesia”, e la panchina è fatta di una materia semplice, un legno orizzontale, in cima a un colle, davanti s’offre intera una vista che pare comprendere tutto, gli alti pini secolari e i campi cangianti di Cupi, l’Aurelia in lontananza e la vegetazione boschiva dell’Uccellina col suo mare aperto, arioso – nel pomeriggio si andrà in spiaggia, il vento non dà tregua ma mette addosso un’allegria contagiosa; io siederò su una sedia di plastica rompendola, e questo mi varrà un racconto rievocato negli anni come una leggenda familiare. È così che nascono le leggende, da fatti minimi, persino ridicoli.

Il paesaggio indagato dai poeti. Sfoglio, mentre scrivo questo ricordo come biglietto d’auguri per la mia maestra e amica, Da mani mortali, e sono ancora insieme a lei sulla panchina. Ci sono le fasi della Luna, e i fiori e le piante che non ho mai saputo riconoscere, e gli uccelli che non ho mai saputo riconoscere invece lei sì, “senti come cantano?” mettendosi in ascolto al centro del campo, o sotto il patio della sua bella casa, una tazza di tè in mano, il libro di Kavafis sul tavolino, “questo è il chiurlo. Il cuculo invece ha una frequenza più bassa, ma continua. Può andare avanti anche tutta la notte, speriamo ti faccia dormire.”

Mi addormento cullato da quel basso continuo che oggi ricerco e provo a indovinare, provandomi in un ascolto che non ho mai affinato davvero. Perché io, ragazzo di città senza alcuna confidenza con la campagna, conosco le manifestazioni ma ignoro le cause. Come quando, verso mezzogiorno, dico a Biancamaria “ma dove sono le cicale?” perché c’è un frinire assordante nell’aria, e lei vedendomi col naso all’insù verso le chiome dei pini, mi domanda “ma dove guardi?” quasi ridendo perché ha intuito il mio errore, ha capito che per me, creatura urbana, la cicala deve avere due ali e un becco come tutto ciò che canta tra le foglie degli alberi. Non ho mai visto una cicala, non so proprio com’è fatta. Me la mostra Biancamaria per la prima volta, e da qui nasce una seconda leggenda familiare di cui un po’ mi vergogno (essere arrivato a ventisei anni credendo che le cicale siano uccelli!).

Anche i poeti sono dei paesaggi. E, nel caso di Biancamaria Frabotta, potrei azzardare il titolo Paesaggio con pietà se fosse l’arte felice di un miniaturista a fissarlo per sempre su tela. Perché la natura, in lei, destava la pietà degli inermi comparsi sulla scena del mondo. Gli esseri piccoli, gli animali, le persone, gli astri, persino Dio destavano pietà in questa poetessa dalla quale ho imparato a leggere i cieli (costellazioni e corpi celesti), o almeno ci ho provato mentre lei, di notte, nel buio del campo schiarito solo dalla Luna, teneva in una mano un binocolo, e con l’altra mi indicava lontananze profondissime come si indica il frutto sopra un melo, medesima confidenza, identico stupore. E poi la mattina dopo, preparando il cestino per la colazione da portare in tavola – pane e marmellate, caffè e biscotti –, il fascino nebuloso delle stelle lascia spazio ai racconti: quella volta che, appena pubblicato Velocità di fuga, telefonò nella sua casa di via Pistoia Alberto Moravia per congratularsi. Voleva premiare il suo romanzo al premio Tropea, e mentre lo racconta Bianca ne imita la voce borbottante e irrequieta ma anche bambinesca e timidamente scontrosa. Ma dura poco, e poi scoppia in una risata a un tempo nostalgica e felice. Irresistibile.

Ricordo la gioia che le dava ascoltare la musica, il pianoforte soprattutto, i pezzi blues suonati dal marito Brunello o quelli classici eseguiti dal mio ragazzo, Leonardo. Non staccava gli occhi dallo strumento, dalle mani, tutta presa in un dialogo segreto tra grandi (l’arte dei compositori, la sua di poeta, a unirle il ritmo e il canto, un passaggio struggente o l’impeto delle ottave spezzate). Per il suo compleanno le regalerei la Grande Polacca brillante con Andante spianato di Chopin. O una sonatina di Mozart, che tanto amava.

“Tanto e altro / può darsi o dirsi”, come scrive Montale in Ex voto, questo poeta che Biancamaria ammirava – soprattutto le Occasioni. Ma io qui mi fermo, apro la busta e vi sistemo dentro questo strano biglietto di auguri per una delle persone che ho più amato a questo mondo, sapendo che nessun biglietto potrà mai contenere tutta la gratitudine, tutto l’orgoglio. Buon compleanno, Bianca.

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