cura e introduzione di Ilaria Palomba
Bordi
n° 2
Bordi è una rubrica di poesia che sconfina. L’idea di bordo è quella di non appartenere a un contesto, di scrivere solo per non morire, come se fosse l’ultima cosa da fare prima dello smembramento. Non giochi linguistici, neologismi, precisione metrica, sterili sperimentazioni. Solo bellezza, ritmo, musica, necessità. Non esistono scritture necessarie, siamo tutti superflui, alcuni non lo sembrano, ma lo siamo tutti. L’unica necessità nella scrittura è quella di non morire. Che la scrittura poetica sia l’ultimo gesto da sopravvissuti, annullamento dell’ego, raschiare il fondo, raggiungere un grado di spersonalizzazione, non significa sciatteria, è l’opposto: l’essenziale raggiunto nella vertigine, la vicinanza al fuoco fino a bruciarsi. Disfare le
regole senza contestarle, solo, raggiungere un altrove dalla regola, un altrimenti dalla bella pagina, dall’epopea stilistica che porterebbe a definire l’io dell’autore. Sottrarre invece ogni definizione, errare. In questa rubrica cercherò di portare alla luce ciò che eccede, non si accoda e non si accorda con l’andamento del mondo. Chi è al margine o fuori, purché sappia come dirlo, troverà qui una casa. Bordi sarà un laboratorio dinamico di voci, una partitura senza confini. Che sia, come voleva Blanchot, una scrittura del disastro, un disapprovarsi e disdire, non saper più scrivere, rinunciare al dono e al nome.
Andrea Pedicini è musica, parola viva, sentita, pensata, metricamente perfetta e mai arida. Tra i suoi maestri risuonano Paul Celan, Beppe Salvia, Cristina Campo, Roberto Carifi, Alfonso Guida. Metafisico e novecentesco, nei suoi versi si sente il pianoforte, difatti – occorre conoscere qualcosa della vita dell’autore per comprenderlo pienamente -, Andrea suona il pianoforte, la chitarra classica, ed è diplomato al conservatorio in clarinetto. Il cinema entra in sordina nella sua poetica, tra le righe riconosco l’afflato filosofico, psicanalitico di bergmaniana memoria, l’etereo tocco tarkovskijano, fotogrammi di Destino cieco di Kieślowski. In Andrea Pedicini il poeta è l’incontro tra le arti, la piena umanità dell’accoglienza dell’alterità, l’heideggeriana cura. Ho dovuto peraltro pregarlo per condividere questo piccolo estratto perché – anche ciò è degno di nota e caratterizzante – Andrea non aspira alla pubblicazione, ama nascondersi, non esporsi allo sguardo di qualunque lettore, ma essere sempre presente nel contatto intimo, in un’interiorità che è ferita e canto.
Spigliavi l’universo col tuo canto.
Nella mano l’algore
di vita adusta al passo carsico,
fucante adolescenza dell’eterno.
Mulinavi infante la carezza
dello sporgersi, fida aspettazione.
Ruotano l’immalinconite lagrime,
melopea spettrale
nell’angelico intervallo di silenzio.
C’avvolse il sommo dio
dell’innocenza,
creatura di un istante:
divenire intravisto di salvezza.
*
Spira l’aureo sopore
nel grembo il ciel vernale.
La foce nella luce
pastura gli alfabeti
di giubilo quiete,
il seguito d’un canto
ornato nella voce.
Svapora sordo l’attimo,
la terrifica pronuncia
al pianto d’ogni cosa.
Sfiorarti le mani,
la bocca e gl’occhi,
nutrire credo e assenza.
Migra nella notte una
preghiera, labente
al tuo venusto volto
di mandorlo fiorito,
di foglia e di cometa.
*
Ogni tre anni crepita la storia.
Supino al capezzale tradivi una
più mite e anuria gloria,
separando nel gelo di gennaio
l’indelebile figura, volta al
passo dell’Addio.
Cos’è questo dolore
che monta in seno sordo?
Riarsa è la ridda dei pensieri
infittita da un più buio sangue.
Nei penosi lari, salmastro e muto
è il singulto acre di condanna,
nel patto il ricordo svergato dai primordi.
Un balbettio di cielo grigio e vuoto
stagliato dalla pioggia,
palpita inoperoso il grumo di silenzio,
uggiola nella gola lo strazio della spina.
*
Entrammo al nuovo giorno,
già il canuto cuore.
S’addormenta il giubilo nel
caduco miasma tributario delle acque.
L’eburneo collo appesantito radica
il pensiero, l’invertebrato oblio
di nuche ore, ere
adiranti nello spazio.
Ricerca i morti capi,
l’inganno al suo manchevole rifiuto.
Svolazza la mosca nell’orlo grido
di finestra: l’intaglio abbreviato delle voci.
*
Mi sono veduto allo specchio, l’ombra
aurea di mio padre nell’astuccio, la
mistica del volto.
Le nenie al pianoforte, gli anni verdi
imbalsamati sotto i polpastrelli.
Fumavi alacremente le MS,
dicevi erano italiane e avevano
nell’acronimo il significato di
Messis Summa, dal latino.
Gli anni ergastolani al crocefisso, il
Kyrie Eleison sgraffiato nella gola, le
novene di Natale, fantasmagorie
degli organi celesti.
Pativi nella tosse il
ludibrio del respiro.
Le composizioni monotematiche,
i tafferugli della disciplina.
Inchiavardavi la porta dell’altrove
dove un’altra vita si espandeva con
l’algebra ingannata, lo stesso esilio.
Una furtiva resa nel remoto
giugno tumescente di calore, ti
accompagnò tra la ferita e il canto.
*
Ogni mattina mi guardo allo specchio
come a cercare una fine qualunque.
Dimentico i giorni, il reo cagionar
delle tossi. Il nero soggolo al collo
sgualcito spettra l’occhio lustrale nel
fossile biancore di pioggia,
Orfeo dei primi affanni.
La terra si ammutina nell’inferno
della chiacchiera, ma tu, desertico
lume, a sera, veglia sul mio volto di
genziana, l’orba passione, il mistero
ch’abbrivia ogni parola
sgozzata alla radice.
*
L’inconfessabile stanchezza preme
al guado di stagione.
Cosa farò di te, oh mia parola?
Spaurito al cielo nel più vermiglio dei tramonti
fa’ di questo dolore
il livido incensiere del bisogno,
carmelitano scalzo nella folgore:
lo scambio dei silenzi.