“Iuri dei miracoli” | Lombardi a tutto quadrato

cura e introduzione di Antonio Merola


Si può essere scoperti poeti? Quando avevo più o meno vent’anni, partecipai a un reading in ricordo di Mario Luzi a Firenze. Ero agitato. Era la prima lettura pubblica della mia vita. E purtroppo per me non avevo ancora mai letto Luzi. All’epoca – l’epoca dei premiers vers – cercavo di scrivere come i poeti della Beat Generation. Per cui, ecco una spiacevole situazione: avevo preso un treno, ora mi trovavo a Firenze con una poesia stampata su un foglio stropicciato che nulla aveva a che vedere con la poetica di Luzi e nessuna intenzione di tornare indietro. C’era un cortile, adiacente alla sala in cui si sarebbe svolto il recital poetico. Una tana. Là dentro, Iuri Lombardi mi chiese un accendino. Non sapevo che fosse Iuri Lombardi. Pensavo dovesse essere un altro lettore della giornata. Gli tremavano le mani – una trasparenza emotiva che non ha perso tutt’oggi. Parlò di un testo teatrale che stava scrivendo con protagonista Giovanna D’Arco. Un testo teatrale in versi, come Alfieri. Che non sarebbe mai andato in scena. Poi fu costretto a tornare in sala, reclamato: scoprii così di avere appena conosciuto uno degli organizzatori. Quando toccò a me leggere, Lombardi si alzò dalla scrivania dei relatori e si andò a sedere tra il pubblico. Una mossa strana. Sentivo di essere studiato. Lessi il testo intitolato Ballata di Jin sotto Gin come se… non so come. A me invece tremava la voce. Alla fine dell’evento, Iuri Lombardi, che nel frattempo era rimasto seduto tra il pubblico, dove ero tornato a sedermi anche io, decise che doveva mostrarmi Firenze subito. È così che è iniziata per me la poesia contemporanea. Iuri Lombardi è stato il primo ponte tra i poeti dei libri e la possibilità di fare della poesia. Certo, col tempo ne arrivarono degli altri. Ma ciascuno di noi ha avuto un primo maestro. Scoprire di avere un maestro è importante quanto essere scoperti poeti. Ogni ponte deve, prima o poi, essere attraversato.

C’è molto della sua lezione nella mia prima raccolta allora ho acceso la luce (Taut Editori, 2023). Perché Lombardi capì, in quel me appena ventenne, che c’era un barlume da incoraggiare, nonostante la rozzezza della scrittura di allora. E senza il suo appoggio nemmeno l’avventura di «Yawp – L’urlo barbarico» sarebbe stata la stessa. Editando, curando e selezionando insieme i testi degli altri per la sezione poetica, in realtà stavo imparando da un laboratorio aggiornato giorno per giorno, anno per anno, filtrato assieme. Così la poesia di Lombardi è rimasta, per me, una iniziazione. E credo che se il compito di un maestro sia quello di spingere il poeta adottivo a superarlo, una delle responsabilità del poeta adottato rimanga quella della perpetuazione. Con questa intervista, ho cercato di toccare nello spazio concessomi quasi tutta la produzione di un poeta che ha scelto di arredare il proprio margine, per abitarci senza chiedere nulla. Della poetica di Lombardi colpisce anzitutto lo sguardo radicale e deandreiano agli ultimi e agli emarginati di ogni sorta. Una accanita, ininterrotta denuncia ai soprusi. Assieme a una incapacità di giudicare gli altri, che è forse una delle forme migliori di giudizio. La poliedricità nel passare dalla poesia al teatro, dalla saggistica alla narrativa, secondo i ritmi di un dettato interiore che smargina continuamente. Una precisa geografia poetica che attraversa Firenze e la Lucania. E una capacità speciale di condensazione nelle chiuse, esemplificata al meglio a partire dalla raccolta Il condominio impossibile (Poeti Kanten, 2016). Certo, non è questa una invenzione propria di Lombardi. Ma accanto ai contenuti e alla forma, accanto alla voce e allo stile, c’è un altro elemento che è sempre così poco considerato quando si scrive di un poeta e che al contrario è uno di quei ponti capaci di collegarci dentro: il marchio che rende unica ogni empatia.

Iuri Lombardi a me ha insegnato l'arte
della chiusa: fai galleggiare il verso
nelle cose che non sai. Scrivi ai vivi
lettere dal futuro. E racconta a chi deve
nascere il domani. Impara a distenderti
come fanno i bianchetti prima di scoprire
la verità: le bugie hanno le gambe lunghe.

A.M. Comincerei con la storia di Iuri dei miracoli. Com’è stata la Firenze della tua formazione letteraria e umana?

I.L. Era una Firenze completamente diversa da quella di oggi, una città d’arte che richiamava tanta gente da tante parti del mondo, quindi crescevi a contatto con una miriade di personaggi di ogni estrazione. Era – e lo è ancora oggi – una città magica. Tieni presente che Firenze è la città della sindrome di Stendhal, si tratta di una particolarità che non ha neppure Roma Venezia o Napoli. La maggior concentrazione di arte nel mondo la detiene Firenze e poi la cupola più grande, un primato assoluto firmato dal Brunelleschi, il corridoio Vasariano, Palazzo Pitti, i lungarni che sono stati punti di incontro della civiltà letteraria del novecento e poi ancora prima dell’ottocento. Pensa a Leopardi, Manzoni, i poeti del novecento, i pittori, gli scultori, i primi registi del cinema muto. È la città in cui Bigongiari incontrò Dylan Thomas. E poi era la Firenze delle notti bische, delle vagonate di giovani che si perdevano in festini e bivacchi, il miracolo, perché così lo abbiamo vissuto, dell’Arno che si ghiacciò nel freddo inverno dell’85. Era la città degli artigiani, dei sarti, degli argentieri, dei ceramisti, dei cappellai (la famosa paglietta di Firenze). Insomma, era per me e forse per tanti un luna park continuo, che per un ragazzo di vent’anni garantiva un divertimento continuo. Ecco io mi sono formato in un clima del genere e di aneddoti ce ne sono miliardi e non è possibile elencarli tutti. Posso dirti che ricordo le sere d’estate al pub in centro, in un vicolo all’angolo con via della Scala in cui noi bivaccavamo con le birre in mano e ricordo che alla finestra una signora anziana, affacciata sul vuoto del proprio davanzale, cantava: Firenze stanotte sei bella sotto un manto di stelle/ in cielo riflettano tremule come fiammelle.

Iuri dei Miracoli, uno dei miei primi romanzi [2013 n.d.r.], quando lo scrissi lo feci per un motivo preciso: fermare in una lunga sequenza narrativa – in un racconto lungo – queste scene quotidiane come fossero dei fotogrammi. Nello scrivere il libro rivivevo tutti: l’austero e il popolare, il nobile che avevo incontrato e che viveva nel suo attico in centro, e la signora della cartoleria, oppure il trippaio che friggeva dalla mattina alla sera, il professionista in giacca e cravatta etc. Tutte queste realtà – e questo è un miracolo se lo leggiamo dal punto di vista sociologico – riuscivano a convivere insieme. Ricordo l’attore Carlo Monni uscire in ciabatte per le vie del centro la notte e passare il resto della nottata con noi a ridere e bere. Oppure ricordo il benzinaio che si giocava a carte nelle bische clandestine. Le mani che odoravano di benzina mentre apriva il ventaglio delle carte intento a giocarsi la vita. E poi la barbona che tutte le sere la trovavi al bar e lei tutte le volte ti diceva, probabilmente inventandosi una vita che le era estranea, di essere stata una illustre ballerina reduce di aver calcato i migliori palcoscenici d’Europa. Insomma, una città che era l’allegoria di una Italia provinciale ma felice del boom economico degli anni ottanta e poi novanta etc. Adesso non è più così, pensa che anche Firenze, come le altre città d’Europa, come l’amata Roma, ha sofferto un tracollo notevole. Probabilmente sarà solo un periodo storico, non so; ma di certo non è più la mia Firenze. Non quella città in cui mi sono formato da uomo e da letterato poi.

A.M. Hai scritto narrativa, saggistica, poesia e teatro. Per un certo periodo sei stato anche editore. Poi ti sei unito all’avventura di Yawp. Emerson scriveva che ogni poesia detta da sé il proprio ritmo. Potremmo allargarci, guardando il tuo percorso, sostenendo che ogni sensibilità detta da sé la propria forma?

I.L. Diciamo che sono innamorato del linguaggio e delle sue molteplici sfaccettature. D’altronde penso che la realtà, contingente o meno, sia linguaggio e per questo soggetta a continui equivoci. Ora il letterato, sia esso poeta, narratore o saggista, deve interpretare questo linguaggio e lo deve tradurre nelle più svariate forme. Il linguaggio quindi la realtà non è altro che un pentagramma bucato, venuto meno, del quale è forse impossibile cogliere il quadro d’insieme. Questo compito, quello di tradurlo e traslarlo su diversi piani e diverse forme, è il compito dell’artista.

Nel mio piccolo ho cercato, attraverso varie forme e generi (stramaledetto genere!), di ricomporre questo mosaico. Sorge dunque un interrogativo: vale più l’autore o l’opera? La risposta è l’opera. La letteratura da sempre è orfana. Proprio perché l’autore è solo un tramite, un essere umano, quindi una formica al cospetto dell’universo, mentre l’opera è parte dell’universo. E poi l’ermeneutica del linguaggio ti mette alla ricerca costante di te stesso e di Dio – ma io esisto? Esiste Dio? – solo scrivendo, adattando la lettura a una forma forse possiamo avere un briciolo di risposta. La letteratura è solo la cornice della pagina, come sosteneva Sartre, non è mai la vita. Mentre credo che sia invece una disciplina di umiltà e di amore per il prossimo e non certo un palcoscenico dove si scatena un narcisismo intollerabile e idiota di tanti autori che mi mettono in mostra. L’autore non esiste, esiste l’opera: se abbiamo capito questo stiamo compiendo una rivoluzione.

A.M. Esiste una linea che attraversa tutta la tua produzione e che ha mantenuto una rotta fino a oggi?

I.L. L’attenzione per gli umili, per gli ultimi. E poi credo la ricerca, attraverso una lettura sociale della nostra civiltà, di se stesso e di Dio. Questo Dio che c’è, ne sono sicuro, che è il regista di un progetto ampio rispetto alla nostra pochezza. Ma non è il Dio idiota dei cattolici – che giudica condanna, pone le colonne d’Ercole perché l’uomo non possa opporsi a lui. È un Dio salvatore che alberga nell’uomo e forse è l’uomo stesso con le sue paure ed esperienze.

Altra tematica che da anni ho cercato di sviluppare è quella dell’amore non convenzionale, che si oppone alla morale becera, allo stato criminale (ho un odio viscerale per lo stato), alla convinzione della casalinga di Voghera, come diceva Eco.

A.M. Ci sono stati, invece, dei momenti di devianza? Hai mai sbattuto contro o abitato un vicolo cieco?

I.L. Sì, molti. Molte volte mi è capitato di iniziare un progetto e poi di non finirlo, ma quando è successo è sicuro perché non sono riuscito con convinzione a leggere il linguaggio che dicevo prima. Amo solo le rose che non colsi, come vedi, Gozzano lo aveva già detto e capito.

A.M. Alla fine della raccolta Il sarto di San Valentino (Ensemble, 2018) hai accorpato un saggio, Poesia come post industriale e narrativa come civiltà letteraria. Perché hai sentito di dover aggiungere qualcos’altro oltre ai testi, che non potesse essere affidato, per esempio, a una prefazione o a una postfazione altrui?

I.L. Perché sentivo l’esigenza di fotografare a livello critico le poesie che avevo scritto. Il saggio in questione, che poi è un breve intervento, è appunto una istantanea che cerca di sintetizzare i punti toccati dai testi poetici. Noi siamo figli del post-industriale, di un’epoca in crisi con se stessa e che ha delle caratteristiche precise: lo smarrimento e il relativo scioglimento dell’io, l’essere vittima di un sistema che getta le reti per accalappiare i cani e del quale non ci è dato di vederne il viso, i tratti somatici. All’opposto l’età industriale, che si è aperta con il Rinascimento, è stato il tempo della fondazione dell’io, della finta libertà del libero arbitrio. Insomma, l’uomo in qualsiasi momento non è mai evoluto al punto di capire cosa sta vivendo, qualcosa sfugge, scappa oggi come all’ora. Pensa a un contadino o a un mugnaio di Barberino del Mugello in pieno rinascimento: sei proprio convinto che lui sapesse che epoca stesse vivendo? Io penso di no. Pochi sono consapevoli. Così, oggi, non è consapevole l’uomo che vive attorno al Central Park di New York come un contadino del Mugello o della Puglia salentina.

A.M. La tua ultima raccolta di poesie si intitola Dizionario delle notti (pref. di Stelvio Di Spigno, Arcipelago itaca, 2020). È come cercare l’esattezza enciclopedica del significato in una declinazione al plurale. A chi appartengono le notti del tuo libro? Da chi sono conosciute?

I.L. Dai tanti disperati che ho conosciuto negli anni, dalla gente che si alza al mattino per portare il pane a casa, dai seduttori che rimangono sedotti da loro stessi, dal mondo intrappolato nelle proprie viscere. Le notti del libro sono la sintesi della sintesi. La realtà stessa in termini epistemologici è sintesi.

A.M. Dopo il Dizionario delle notti, con il tuo ultimo romanzo, appena pubblicato, La Via Lattea (LuoghiInteriori, 2023) sembra che tu voglia ruotare come un pianeta attorno a uno stesso campo semantico

I.L. La Via Lattea (che poi in termini tecnici si può definire un raccolto lungo o un romanzo breve proprio come Iuri dei Miracoli…) è la sintesi dei miei studi antropologici degli ultimi anni. Il titolo può ricordare il celebre film di Buñuel – una pellicola generazionale per il suo tempo [La Voie lactée, 1969, n.d.r.]  – in realtà è un viaggio nel romanzo del nostro tempo. Un castello di carta in cui sono annientate tutte le reazioni e le provocazioni, che abbraccia, per certi versi, un discorso metafisico in cui causa ed effetto non esistono più. L’elemento in comune che ha con la raccolta di poesia è la notte, il tepore crepuscolare, la malinconia come fonte di credo per sopravvivere e restare a galla.

Ma è anche un’istantanea poetica e assurda per paradosso del mito contemporaneo: certi personaggi come Giorgio (il corrispettivo russo di Giorgio è Iuri) che è costretto a creare un business attorno alla morte, prestando i vestiti ai morti come mestiere, credo che abbia aspetti beckettiani ma che sia, al contempo, la sintesi coincisa del dramma della sopravvivenza. Allo stesso tempo Rocco che delinque continuamente è il prototipo di un povero cristo costretto a sacrificare i propri affetti per poter sopravvivere. Quindi da questo punto di vista è un romanzo di formazione. Non lo è dal punto di vista strettamente tecnico, ma lo è perché racchiude nelle sue pagine la vita quotidiana di tanti disgraziati.

A.M. Questo romanzo ha molto a che fare con una ricerca che stai portando avanti da qualche anno, legata al romanzo antropologico. E insieme con un altro luogo della tua geografia poetica: la Lucania.

I.L.La Basilicata è stata un crocevia importante per un certo tipo di civiltà letteraria e, se vogliamo, filosofica. In Lucania – il suo vero nome – Carlo Levi è giunto da Torino, allievo di quel grande maestro di pensiero che era Piero Gobetti, e nel’45 diede alle stampe il romanzo antropologico italiano per eccellenza e composto a Firenze, Cristo si è fermato a Eboli. Un romanzo spartiacque che come sappiamo è nato dalla sua esperienza di confino ad Aliano, nel materano. Dopo di lui c’è stata la figura ineguagliabile di Rocco Scotellaro, di Leonardo Sinisgalli, Albino Pierro, e poi a ritroso, tra il cinque e seicento, di Isabella Morra.

Solo che la rivoluzione compiuta da Carlo Levi ha inciso profondamente la coscienza letteraria italiana. E tutto questo trova la sua genesi in Basilicata. Possiamo quindi parlare di un prima Levi e un dopo Levi. Non è un caso che in epigrafe il mio romanzo, La Via Lattea, porta un suo inciso. Per me è stato un maestro di pensiero, un intellettuale che dividendo la società in luigini da una parte (i padroni) e i contadini dall’altra, da non marxista ma da liberale di sinistra, quindi da socialista liberale, che dal’55 in poi si sarebbe chiamato radicale, ha cercato nella sua opera di riformulare le cose, le istituzioni e il loro ruolo. Nel Cristo Levi ristabilisce una distanza tra lo stato e l’uomo, tra la violenza del Fascismo prima e dell’antifascismo dopo. D’altronde non poteva essere diversa la cosa, era allievo di un fondatore di un metodo critico: Gobetti che nella Torino degli anni Venti e Trenta compie una rivoluzione, quella che poi lui chiama liberale, facendo l’editore, lo scrittore, estensore di riviste letterarie, traduttore di certi autori russi che sarebbero rimasti sommersi. Carlo apprende tutto ciò e quando si trova in Lucania al confino mette in pratica questo pensiero e una volta venuto via, a esilio concluso, sulla via della mia amata e odiata Firenze, proprio nei paraggi di piazza Pitti, scrive nel’45 il romanzo-manifesto: Cristo si è fermato a Eboli. Lo scrive ripercorrendo i volti, gli odori della Lucania interiore che aveva conosciuto e che gli era preclusa in qualche modo. Lo fa in una Firenze bombardata, con la sua macchina da scrivere dietro monconi di muri crollati, in una città avvolta in un sudario di sangue e polvere. Mentre Rocco Scotellaro, suo allievo, in Lucania, seguendo il suo esempio, lotta da sindaco socialista per i diritti dei braccianti, della povera gente che si sentiva tradita da Roma. Il problema è che ci sentiamo tutti degli eterni traditi, e forse lo siamo, a partire da noi stessi. Volendo quindi allargare il discorso, possiamo affermare che Levi è riuscito a essere un formidabile lettore della nostra società. In sostanza, credo che voglia dirci che al male italiota non c’è rimedio e la salvezza sta nella libertà individuale e non in quella collettiva. Credo che ci voglia far capire che la libertà è una disciplina e che lo stato sia solo uno scandaloso deterrente.

A.M. Qual è la differenza – se esiste – tra lo scrivere poesie a vent’anni e scriverle invece alla tua età? Di solito, si chiede sempre dei maestri. Proviamo a fare il contrario: riconosci qualcosa dello Iuri ragazzo nelle nuove generazioni di poeti?

I.L. Riconosco tanti Iuri nei ragazzi di oggi che fanno poesia: riconosco Iuri in te, in Riccardo Delfino, nel compianto Galloni e in tanti altri. Ma temo la poesia appartenga alla giovinezza e che da una certa età in poi diventiamo più filosofi che poeti. Da una certa età in poi ci affidiamo cioè di più alla razionalità e meno alla sfera emotiva e la poesia non ha bisogno del razionale, altrimenti si suicida. La poesia è effervescenza, istinto, passione; è il parlare di un argomento parlando di un altro in contemporaneo; è un’autostrada a quattro corsie. Mentre la razionalità può partorire, nella maggior parte delle volte, solo prosa, perché è in sintonia con il costruire una struttura, un mosaico di tempi e di situazioni. Insomma, da una certa età in poi anche quando si fa poesia facciamo altro e non più poesia.


da Dizionario delle notti (Arcipelago Itaca, 2020)

Albeggio a intermittenza al balcone
la controra recide gli spauracchi,
copre i corpi abbandonati dalla morte;
la sfida sta nell’incedere muto
di un passo di troppo sulla rupe
il sonno è miele nel nido della via
le case serrate sul nulla:
come Dio non ti sento da tempo.

*

L'abbiamo fatto mille volte contro
il muro, in piedi, felici ondeggiando:
è una questione di equilibrio il tenersi
in allerta tra i fusti degli alberi bui
– mi davo a te come un bimbo alla fiaba?
Dimmi adesso a cosa pensi? Luccica
una scia nell'incurvatura della notte;
forse è solo la cometa annunciatrice:
il redentore diserta il suo arrivo.

da Il Sarto di San Valentino (Ensemble, 2018)

Non ho fatto in tempo a baciarti la fronte,
te ne sei andato, figura persa
nel pomeriggio già bruno sul presto,
vagabondo nella spirale amena
nello zampillo, nello sgombro dell'ombra,
di palazzi nuovi di cemento.
Non ti lasciare ti prego nel niente;
la città qui si ricompone negli sozzi
riverberi di luce o tra pozze
in un autentico mattino cui scorgi
negli occhi del compagno bianco di buio.
Perdoni la mia cecità? L'irruenza
svanita a ciuffi tra i capelli? L'amore
che fu è ancora amore: un fitto epistolario.

*

La città parve dilatarsi sul greto,
il fiume all'orizzonte d'un tratto sfumò;
luci intimidite dal vento aprono
il giardino romantico oltre il dopo.
Perché saltelli tra i marmi assonnati?
L'avvento striscia sull'unto dell'ovvio
– brevi schiamazzi attentano il giorno:  
“Non ho un buon rapporto con la morte”.
Non credo sia paura la tua,
la luna non ha timori e albeggia
tra i fanali del sabato di mercato.

 da Il Condominio impossibile, (PoetiKanten Edizioni, 2016)

*

Nel cortile assonnato sentivo la tua voce,
divagava su cose certe senza passato,
all'incirca quanti anni ha il cielo
(le valigie ti dicevo è bene farle da ultimo)
tu continuavi a confabulare, bandito
imbonitore di qualche rassegna da focolare,
alzando gli occhi verso al piano
per un possibile amore mai saputo.
Cosa ti porti dietro? Come vestirai per il viaggio?
Al tabacchi oggi cercavo sigarette semplici
ma nel cortile ieri le sapevo fumate.

*

Ti convinci che la vera arte sta
nel sopravvivere ogni giorno del tempo,
costretto a prendere il primo tram,
ad arrancare per tornare vivo
a sera dopo la lotta giornaliera;
essere sopravvissuto al Getsemani,
alla perdizione della bellezza
che col tempo sfiorisce e muta
gli ardori come striature sui vetri:
ogni altra arte è superba e non necessaria.
Inutili sono le parole insuonabili
senza la libertà di disporre di due corde:
la lotta alla vita prevale violenta.
Ma il marzo che c'è in te vittorioso
riscatta i tuoi anni di bellezza e armonia:
il tempo alla fine è un ragazzo che torna.
Celere il tuo passo sulle scale.

*

Questa fame di vita mi disarma;
il più delle volte non mi fa perdere
occasione, a buio mi spinge verso
nuove avventure, di giorno mi fa amare
covando il desiderio.

Allora da cane mi aggiro in cerca di luce,
se pur effimera o banale verità,
e solo negli incontri dove rapido consuma,
appagato dal lauto pasto, mi lancio
sulla preda in un delirio di fuoco:

l’etica albera solo nella bellezza.

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