a cura di Lorenzo Pataro
traduzioni di Marco Bartoli
Ipotesi
Anche sia vero che la falena
scambia la fiamma della candela
per la luna o i ferormoni
bioluminescenti di un’altra falena
non posso dirlo.
Io sono la fiamma;
io sono la candela.
Concepita nel e a cagione del buio,
brucando uno stoppino che si annera.
Falena dopo falena dopo falena
mi hanno invaso le loro ali di farina.
Ho chiesto perché:
ho chiesto come;
ho chiesto se
sarei sopravvissuto anche sapendo
che non tutto ha una ragione;
che non tutto è in grado o interessato,
alla ragione.
Nulla mi ha risposto;
nulla mi ha parlato;
la mia lingua di bruciato.
Elegia col rossetto di mia madre
Scendo alla spiaggia che fronteggia il Pacifico.
Rivoli di pioggia corrugano la sabbia. Dall’altro lato,
nonna dorme ammutolita nel suo letto. Nel suo áo dài
di seta candida. Mamma sapeva che sua madre era morta
molto prima che lo squillo del telefono come campane
annunciasse la partenza dell’ultimo elicottero americano
da Sài Gòn. Freccia tornata all’arco, missile a lungo gittata,
sarebbe balzata in cielo per tornare a casa, se lo avesse
potuto. Fa gli straordinari invece. Si arriccia i capelli
con la piastra, incipria le guance come Gong Li
in Lanterne Rosse; io sono la sua controfigura. Nascosto
nell’androne tra la mia e la sua pena, applico il fondotinta al volto,
celo quelle stesse parti che lei nasconde, stringo le labbra
come a baciare con azzardo un uomo che mi ama
nel modo in cui lo voglio. Declamo a voce alta i loro nomi
ammaliatori: Rosa Corrotto, Fucsia Parigi, Arroganza.
Scelgo il rossetto che ritiene più indecente:
la mia bocca è una melagrana aperta, una granata
dalla sicura lasca. In cucina, mi lego ai fianchi
uno strofinaccio bianco e ballo per ore, scrutando
il mio riflesso dentro una padella abbrustolita. Rido
la sua risata, lo stesso modo in cui nonna rideva
mentre mi insegnava a pregare il Chú Đại Bi. Ricordo
di averle legato i capelli dentro un’afa insopportabile.
Le mie piccole dita intrecciano l’argento in una coda,
uno chignon. Ogni nodo è un figlio cui non ha potuto
dare nome, sepolto dentro la sua terra, la zolla arida
dove trattiene l’odore persistente dei soldati comunisti
che le incarcerarono l’unico rimasto. Mi spiace, nonna,
bodhisattva dalle cento mani indaffarate. Nessun figlio
della nostra famiglia resta un figlio che la madre possa amare.
Quando compresi che il mio corpo non era il mio,
quando udii lo sciabordio nel mio cuore, lo seguii attraverso
oceani più vasti della distanza che ci separa adesso.
Mi trovai sopra una rena, una conchiglia che sfarfalla
dentro l’onda. L’accostai all’orecchio. Eri tu, sempre
ridendo, masticavi una manciata di noci di betel.
I tuoi denti neri come l’alba ancora spenta.
Parco di confine
Attraversiamo la marcita, mosche depongono le uova
tra gli intestini di una foca sventrata, la testa distante metri,
sporge la grossa lingua ingrigita, senza più voce,
come per sfottere il proprio cadavere, studiare la lentezza
del suo decadimento, i vivi che danno nuovo scopo ai morti,
mi appoggi i palmi delle mani sulla schiena, il tuo battito
mi saetta, mi attraversa il cuore, con la stessa forza
dei marosi che si rifiutano di inghiottire il cadavere,
dare alla bestia un funerale, giusto o ingiusto che sia,
e non so dire se sia il tuo o il mio, se i resti sbeffeggino
se stessi oppure noi, adolescenti gravati dall’adolescenza,
da segreti che non possiamo rivelare per paura ci ricaccino
indietro o non ci sia più un luogo dove venire rimandati.
Ti guardo, il tuo volto arrossito dai raggi vulcanici del sole,
le labbra irrigidite a destra, prese all’amo da un filo
di seta sottile, forse perché nella fretta di riassemblarti,
le mani che mi gettano sulla sabbia calda, qualche dio
si è dimenticato di immaginare tutto il tuo sorriso, la musica
luminosa che ne scappa come un ragazzo che attraversa
di soppiatto la frontiera, con la madre dietro sotto un cielo
mitragliato di stelle, un dettaglio di cui faremo a meno.
Per colpa tua mi domando a cos’altro dovremo rinunciare,
cos’altro i nostri dei, dai loro regni torreggianti, eleganti
e viziosi, voluttuosi e distratti, abbiano dimenticato
nella nostra creazione? Cos’altro hanno lasciato, in balia
di caso e circostanze? Per colpa tua, il più vicino che sia mai
stato alla bellezza, il più vicino che sia stato alla confessione,
a pregare per un posto in paradiso, dove saremo entrambe
cittadini e non clandestini in fuga da legge e antimmigrazione,
da tutto quello che sono troppo codardo per ammettere,
che deglutisco con ogni ma se… che mi martella in gola
i suoi chiodi di acciaio come larve che mi esplodono
dal ventre, pretendono ali e sangue, atterrito dalla vergogna
che so mi procurerebbe il parlare, la vergogna che sboccia
come cimici sottopelle quando so che non potrai mai
amarmi come voglio, perché so, che nonostante i confini
che già abbiamo superato, c’è un confine che non possiamo,
un confine più vasto e pericoloso del confine
che infine raggiungiamo, artificiale e sorvegliato, affonda
in un oceano che, come le nazioni che ci lasciamo alle spalle,
come il futuro che ho reso muto con la mancanza
di speranza, non ci reclamerà mai.