a cura di Giorgio Ghiotti
Archivio oggetti comparsi
n° 1
Archivio oggetti comparsi è lo spazio in cui nulla è andato perduto, e dunque nulla si ritrova: tutto, se mai – interviste a grandi nomi della poesia, riflessioni critiche, letture trasversali di opere e autori – appare lungo il cammino senza bisogno d’essere invocato. Perché ciò di cui abbiamo bisogno spesso ci è ignoto appena prima di comparire davanti ai nostri occhi, proprio come un amore, o una poesia. Rubrica a cura di Giorgio Ghiotti.
G.G.: «La parte di me che resta / o quella sul punto di andare», sono due versi contenuti in
Solstizio (Mondadori, 2014). Fin dalla prima raccolta d’esordio del ‘95, è possibile
rintracciare nella poesia di Roberto Diedier, tra le voci più oneste, potenti e colte della
poesia italiana contemporanea, un doppio itinerario della scrittura e una doppia attitudine
di autore. Deidier è un poeta aderente al mondo, alle cose del mondo, ma ha in sé al
contempo la volontà di fuggirne, di allontanarsene, congedandosi, anche se il richiamo
della realtà è troppo forte per sottrarvisi.
R.D.: Quando affronto l’opera di un poeta, mi diverto a partire dai titoli dei suoi libri, per
vedere se la successione mi ispira. Se mi soffermo sui miei titoli, c’è sempre un movimento
tra tempo e spazio, tra il corpo e il giorno (uno spazio privato come il corpo che si fa spazio
permeabile e che apre al giorno): Il passo del giorno, Una stagione continua, Il primo
orizzonte (in qualche modo in contraddizione con l’ultimo orizzonte di Leopardi)… Non c’è
mai stato in me nulla di metafisico, se mai una ricerca nell’immanenza, cioè l’interesse per
quanto sta al di qua della siepe. Il primo orizzonte, libro che Biancamaria Frabotta salutò
come il mio “più felicemente disordinato”, e che uscì a breve distanza da Una stagione
continua, era una raccolta che tracciava questa mia ricerca nello spazio, e non solo nel
tempo. Poi c’è stato il lungo silenzio durante il quale ho lavorato al quaderno di traduzioni
Gabbie per nuvole, silenzio rotto nel 2014 dall’uscita di Solstizio (ancora un titolo
temporale) cui ha fatto seguito nel 2021 All’altro capo (ancora un titolo spaziale).
Direi che questo è il vero doppio movimento di ciò che ho scritto: All’altro capo contiene un
viaggio per raggiungere l’altro capo, ma c’è anche il voltarsi indietro (come statua di sale),
guardando a ciò che si lascia. Là parte quel sentimento del tempo che è la malinconia, non
necessariamente la nostalgia che ha sempre un oggetto preciso. La malinconia è qualcosa di
pervasivo e diffuso. Il viaggio è un’esperienza malinconica, sempre, e tutti i miei viaggi
(veri o immaginari e poetici) sono dei viaggi sentimentali, e finiscono per essere
necessariamente dei viaggi malinconici. Il corpo che avanza nello spazio e lo sguardo che
guarda all’indietro, anche se una energia più forte lo spinge avanti, e Kle dice che guardi le
macerie della Storia, ma in verità guardi le macerie del nostro passato che non esiste più.
G.G.: Cito da All’altro capo: «Gli anni sono un alibi, i secoli una bugia, / Diletta mano che
scrivi credendoti al riparo». Nella tua poesia convive un senso di nostalgia e la
consapevolezza che la scrittura rappresenta una consegna per chi verrà. Memoria e lascito,
insomma, come se ne può ravvisare pure in autori come Montale, come Saba. Forse che la
consegna, la testimonianza implichi in sé una nostalgia cui è impossibile sottrarsi?
R.D.: Garboli mi scrisse: “in te ci vedo Penna”. Io dico che cerco Saba ed esce Montale.
Saba è il mio poeta, quello che sento più vicino. Se devo indicare il mio Novecento, ci sono Saba e Sbarbaro. Penna canta la nostalgia della vita, ma in realtà la sua nostalgia guarda al
futuro: è la vita che sa di non poter più vivere. La nostalgia nasce da questo senso di
impotenza rispetto al tempo, è data dalla nostra finitudine. Un giorno tutto finirà e il lascito
rimane un grosso punto interrogativo. Non sappiamo chi lo accoglierà, se lo accoglierà. La
nostalgia ha a che fare con la lotta contro il divenire. Noi vorremmo che, quando ci sono
stati di serenità, le cose restassero per sempre così, ma poi la vita rimette tutto in moto.
Allora la scrittura si fa luogo dove questo lascito prende sostanza e identità. Per questo io
non riesco a giocare con la poesia, mi piacerebbe scrivere ogni tanto delle cose in rima o
delle filastrocche o delle poesie alla Toti Scialoja, ma non riesco perché la poesia, in questo
senso, diventa per me quasi un esorcismo nei confronti della morte e della finitudine.
G.G.: Molte e diverse, sempre vive sulla pagina sono le città di cui scrivi, o che ispirano
versi memorabili («In questo modo inganna una città / Il telescopio magico degli anni» da
All’altro capo), da Palermo a Roma a Venezia («Questa città non esiste, puoi soltanto
sognarla», id.). Ti giro la domanda sulla quale s’interrogava Natalia Ginzburg,
rispondendo in quello scritto stupefacente che è Così è Roma (oggi in Vita immaginaria).
Che cos’è una città? E rilancio chiedendoti: le città sono fatte per ricordare anche quando
noi dimentichiamo? Qual è l’inganno dei luoghi, di cui tu scrivi?
R.D.: Più che una città come Roma, o Palermo, mi accorgo che non c’è Napoli nelle mie
città poetiche; non riesco a spiegarmela fino in fondo, questa assenza, perché Napoli è di
fatto la mia seconda città, più di Palermo o Venezia. Napoli si è presentata a me come
lingua. Mi è capitato di scrivere, io che sono romano, alcune poesie in napoletano, di
sognare dei versi in dialetto, e di svegliarmi di notte e di scriverli. Napoli si è manifestata
nella vivacità della sua lingua. Non potrei mai scrivere in palermitano o veneziano, persino
in romanesco mi risulterebbe difficile.
Vento alle tue domande. Le città sono l’immaginazione di una città, prima ancora di
arrivarci o di tornarci. Ogni volta che torno a Venezia, ci torno immaginandomela. È un
luogo di ponte, una città, ed è immaginazione, e sogno. Venezia è ponte tra Occidente e
Oriente. Sulla punta della Dogana vecchia c’è un affaccio improvviso su quello che è
l’Oriente, un Oriente che comincia prossimo, già dai Balcani, ed è un Oriente di
immaginazione e di sogno. Venezia come Roma è una città di cupole, e io con le cupole ho
un rapporto di rappresentazione grafica fin dall’infanzia. Infatti l’altra città dove dovrò
andare, prima o poi, è Samarcanda. Da bambino disegnavo un’infinità di cupole azzurre sui
fogli, senza sapere che Samarcanda è nota come la città delle cupole azzurre. Sarà bello
sovrapporre la mia Samarcanda infantile a quella reale. E Samarcanda è anche la memoria,
per me. Ecco, potrei risponderti dicendo che la Città è una Samarcanda tra le altre possibili.
G.G: Oggi si fa un gran parlare di poesia, di editoria poetica, di premi letterari, di
poetiche; eppure la poesia – è un’idea che mi sono fatto muovendomi felicemente in tutti i
tuoi libri, con ammirato stupore – ha a che fare più col silenzio che col vocio, col
chiacchiericcio che le si crea attorno…
R.D.: Il silenzio è il terreno di preparazione alla poesia. Il linguaggio nasce dal silenzio, lo
deve attraversare. Il silenzio non è l’opposto del linguaggio. È lo spazio in cui il pensiero si condensa in un ritmo, e il ritmo poi porta con sé parole cariche di significato. In quella
dimensione di raccoglimento data dalla solitudine e dal silenzio – l’immagine del deserto –
la voce improvvisamente sorge. Del resto per ascoltare la voce di Dio, Mosè si è recato nel
deserto e addirittura, nel deserto, quel silenzio si è fatto musica; ma quella musica, nella mia
visione, è stata fraintesa. Invece bisogna stare attenti a non fraintendere. Il linguaggio nel
silenzio nasce già profondamente decantato, libero dalle scorie quotidiane, dai suoi luoghi
comuni. Il silenzio è il luogo in cui il linguaggio può essere ricaricato di senso. Non a caso,
nell’esperienza di poeta di Wilcock, Wittgenstein è un punto di riferimento essenziale: per il
suo discorso sul depauperamento del linguaggio, sulla necessità di ricaricare il linguaggio.
Le parole sono sempre quelle, e non è che abbiamo molta necessità di inventarne altre. Ma
molte di quelle parole sono diventate dei luoghi comuni. Per questo resto basito quando
alcuni tra i miei colleghi impongono dei dictat: non bisogna più usare la parola vento, per
esempio, o dolore, o anima – termini scarnificati da un’intera tradizione. Anceschi ne Gli
specchi della poesia dice che la poesia si fa con l’ovvio, non con il banale. Bisogna
ricaricare di senso ciò che è ovvio. Dobbiamo scavare per trovare quei grumi di
significazione che ci mettono in contatto con gli altri. L’essenziale è oltre l’individuo; se
vuoi coglierlo, devi ricaricare il linguaggio, e per ricaricarlo hai bisogno, essenzialmente,
del silenzio.
G.G.: Una delle sezioni più interessanti de All’altro capo è senz’altro Atelier Valadon, in
cui ripercorri, in poesia, persino prestandole voce, la vita dell’artista Suzanne Valadon,
madre del pittore Utrillo. Com’è nato l’interesse per questa figura, e il bisogno di
scriverne?
R.D.: Quando sono stato a Montmartre, sono andato a visitare la casa museo dove vivevano
e lavoravano i pittori a cavallo del secolo (tra Otto e Novecento), a partire da Renoir prima
che lasciasse Parigi. C’erano esposti i soliti nomi molto noti, ma poi mi sono imbattuto in
alcuni nudi di Suzanne Valadon, e ho trovato una grande forza in quelle opere.
Improvvisamente sono stato catturato da una piccola porta e io, che sono un inguaribile
curioso, ho girato la serratura e aprendola. Mi sono ritrovato nello studio di Valadon come
lo lasciò lei quando morì: il calendario del 1925, una tela con un vasetto di fiori non finito,
un barattolo con i pennelli ormai secchi. È stato un capitombolo temporale, come tornare
indietro nel tempo. Allora sono andato a studiare la sua vita, straordinaria; Suzanne era stata
fioraia, lavandaia, aveva lavorato in un circo, era stata sarta… Questa sezione del libro è un
omaggio a questa donna straordinaria e fuori della norma, assolutamente libera. E poi ho
immaginato quale potesse essere il rapporto con il figlio, grande pittore, assolutamente
problematico.
G.G.: Nel saggio Il poeta e il tempo, Marina Cvetaeva individua due tipologie di poeti,
quelli con storia e quelli senza storia. Provocatoriamente ti chiedo di pensare al tuo
percorso: a quale “categoria” pensi di appartenere?
R.D.: Io credo che l’idea di tempo e l’idea di storia non siano la stessa cosa. Sicuramente
Cvetaeva in quel lungo saggio finisce per farsi questa domanda, ma secondo me è un modo
per scivolare su una contingenza che ha colpito lei e la generazione che va da Achmatova a Mantel’štam. Loro hanno subito la storia, nel senso che il loro tempo è stato profondamente
disturbato dalla storia. E la Storia è entrata in quello che tutti loro hanno scritto, a
cominciare da Achmatova, quando in fila davanti al carcere delle Croci a Leningrado,
interrogata da una donna che le chiese: “Ma lei ha le parole per raccontare tutto questo?”,
rispose: “Sì io le ho”, con una certezza incredibile del propria capacità di cantare quel
requiem estremo che poi ha composto, e che è il suo capolavoro assoluto.
Noi siamo la generazione senza guerra. Abbiamo avuto meno traumi, meno scossoni. Io mi
sento un poeta del tempo interiore, più intimo, però mi fermo a pensare: è vero che non
abbiamo avuto una guerra, però abbiamo avuto nemici, anche più subdoli, perché siamo
cresciuti in un contesto politico ben delineato con cui fare i conti, che si chiamasse prima
fascismo, poi democrazia cristiana, poi conformismo. Noi siamo nati nell’età del
conformismo, che ha fatto sì che le coscienze si obnubilassero, che la nostra capacità di
visione si offuscasse. Quando mi si interroga sulla poesia civile, dico che intanto la poesia
non sopporta alcun aggettivo. Ma poi cosa vuol dire? Ogni atto di poesia, in mezzo al
conformismo che ci circonda, è un atto di civiltà, perché tende a scuoterci, ci fa vedere le
cose da una prospettiva laterale, e questo fa sì che la coscienza resti vigile, che non si
addormenti. È vero che la Storia ci ha narcotizzato, invece di ucciderci; ma se si va a vedere
bene anche nelle cose più liriche che ho scritto, una corda per così dire corale, collettiva, c’è
sempre. Quindi sì, sono nel tempo, ma anche un po’ di storia me la posso riconoscere. Tutta
la sezione della Statua di sale in Solstizio parla dei migranti. Quella è la nostra storia, cui
abbiamo assistito e continuiamo ad assistere. Io più che un’urgenza diretta di racconto ho
sentito un’urgenza mediata, un’urgenza a metaforizzare; nella tragedia dei migranti vedevo
qualcosa di mio: il tema del viaggio forzato, dell’esilio, della rinuncia. Non mi andava di
raccontare direttamente di un barcone che partiva, ma sono tornato indietro recuperando
tutti i materiali che potevo, finanche biblici, per dare una coerenza al libro. Non mi sento un
poeta realista. Penso a Auden, Brodskij, Walcott: tutti loro hanno sempre parlato per grandi
immagini, per metafore, della realtà. Se si leggono le poesie su Ischia o Venezia o Roma di
Brodskij ti accorgi che c’è una carica metaforica straordinaria. Del resto la poesia
metaforizza l’esperienza. Come diceva Octavio Paz, la poesia non è l’esperienza ma la
metafora di un’esperienza.
G.G.: Il tuo lavoro più recente è Nero residuo (Le farfalle, 2022), libro nato dal
gemellaggio della tua poesia con le illustrazioni dell’artista Laura Fortin. Il risultato è
un’opera disturbante e evocativa, in cui i versi non precedono le immagini, ma le seguono e
le amplificano lasciandosi guidare dal segno…
R.D.: Ho lavorato molto con i pittori, è qualcosa che amo da sempre. Come dice Lidia
Ravera, ogni tanto ci si può permettere di vestire alla boutique. È bello andare dal sarto e
farsi fare le cose su misura, e trovare un artista disposto a lavorare sulle tue immagini.
Stavolta è successo il contrario. Laura Fortin mi ha sempre colpito perché ha un segno
diverso dal mio, sulla linea neuro-dark, molto inquietante, quasi da riuscire fastidioso (e per
questo colpisce dritto al cuore). Mi mandò questi disegni che misi inizialmente da parte. Ma
hanno lavorato a lungo in me e un giorno li ho tirati fuori, scrivendo nel giro di una
settimana le poesie di Nero residuo. Ho cercato di lavorare seguendo non tanto il segno
quanto l’immagine che il segno poteva accendere in me. Non sono poesie didascaliche.
Tutto questo ha creato una tale simbiosi tra testo scritto e disegnato che ora è impossibile leggere le poesie senza disegno davanti. C’è stata una vera e propria osmosi. Il fatto più
incredibile è che Laura si è sentita molto compresa da queste poesie, anche se non sempre
avevo interpretato bene, perché avevo interpretato liberamente. Tanto che mi ha
incoraggiato a scrivere fino ad avere un libro di 14 disegni e di 14 poesie. Questo volumetto
è un unicum nel mio percorso. E mi ha costretto ad assumere anche altre identità – chi parla
è una identità femminile –, a proiettarmi in una femminilità problematica che affronta un
grande disagio sociale ma anche le proprie tempeste psichiche. Per me che sono abituato ad
affrontare le tempeste cercando di tenere saldo il timone, scrivere questo libro ha significato
imparare a lasciar andare, e infatti anche la mia lingua è cambiata notevolmente. Ma è bello
ogni tanto uscire da sé e tentare qualcosa di nuovo. Le prime dieci poesie sono composte da
versi brevi, e hanno una loro forma più compiuta, tradizionale; poi con gli ultimi quattro
disegni ho avvertito l’esigenza di rompere con la forma più tradizionale, e ho optato per
delle prose poetiche o poemetti in prosa. Ho avuto bisogno di far correre libera la penna.
G.G.: Riporto i versi di Ultimo frammento di Raymond Carver che tu hai inserito come
esergo di una delle sezioni di Solstizio: «E hai ottenuto quello che volevi da questa vita,
nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi amato sulla
terra.» Volgo le stesse domande a Roberto Deidier.
R.D.: Ho avuto abbastanza dalla mia vita, ho sempre cercato anzitutto di essere amato sulla
terra, non amato in cielo, o nei pensieri, ma amato concretamente. L’immagine della terra è
sempre concreta, tangibile. Devo dire, a conti fatti, che sono stato amato. Avrei voluto in
certi momenti della mia vita che questo amore fosse più pervasivo, più espanso, che fosse
qualcosa di corale, ma mi rendo conto che è un’utopia. Non ci si può sentire amati da tutti.
Ogni vera festa deve sempre avere un guastafeste. E quelli non mancano mai. A volte mi
accorgo che si fa fatica ad essere amati anche nel grande conformismo e nell’ignoranza che
domina nella poesia italiana. Mi domando il saper leggere dove sia finito; io leggo sempre
con occhi disincantati, ma sempre disposti a farsi incantare – ma leggo spesso cose in cui
manca una lingua, o c’è una lingua che però non dice nulla. Allora mi chiedo perché di tutto
questo si parla e dei poeti che hanno qualcosa da dire, e una lingua per dirlo, non si parla.
G.G.: Mi pare che questo atteggiamento di cui parli riferendoti al te lettore, sia intatto
anche nella tua poesia. Intendo questa disposizione nel lasciarsi innamorare per cui il
disincanto non intacca, né svilisce lo stupore…
R.D.: Lo stupore è un po’ la dimensione in cui ancora si esprime un’infanzia possibile, ed è
bello che ci sia, che resista questo sostrato. Non è vero che l’infanzia è il luogo dove manchi
la comprensione del tuo presente, anzi al contrario, forse l’infanzia è la dimensione che ti
protegge dal presente e ti consente quel giusto distacco per continuare a parlare del presente.
G.G.: Un’immagine della tua infanzia che ancora suscita in te questo stupore?
R.D.: Ho scritto un verso, eccolo qua: «Mano che si crede al riparo dallo scorrere del
tempo.» In questa poesia è uscita fuori una lontana immagine di mio nonno che, durante un mio compleanno, addobbò tutta la casa di campagna di luci colorate. Mi fece una grande
impressione, e poi capii che era un omaggio che aveva voluto farmi, perché un giorno mio
nonno, interrogato da un mio amico che gli chiese “Se potesse tornare indietro chi vorrebbe
essere?”, rispose: “Vorrei essere mio nipote”. È il gran gioco delle generazioni. La mano è
“cara” perché è quella che scrive, quella che si illude che la scrittura possa essere un riparo
(dal tempo, dalla fine). Ma è un esorcismo finto. Però finché ci siamo, possiamo scoprire
quanto è bello ciò che c’è al di qua della siepe, non al di là come in Leopardi. È qualcosa di
prezioso e irripetibile, questo tempo in cui esistiamo, e questo nostro habitat che può
sembrare una prigione spazio-temporale, ma non lo è. Se frammentiamo il nostro
quotidiano, scopriamo che anche lì può esserci l’“infinito”. E questo lo aveva capito molto
bene Sandro Penna.