Editoriale | La sottrazione della voce

di Francesco Terracciano
in copertina Otto Dix, Trittico della metropoli, 1927-28, tecnica mista su legno, Stoccarda, Kunstmuseum


Mi è capitato di recente di soffermarmi su alcuni studi, riguardanti i media e la costruzione dell’identità, che mi sono sembrati ancora più significativi in rapporto al nostro tempo, alle dinamiche che lo connotano e alle inquietudini che l’attraversano.

La fruizione di contenuti diffusi attraverso la radio, la televisione o la Rete sembra essere stabile (sociologi e altri addetti ai lavori parlano, a questo proposito, di “dieta mediatica”), mentre sembra diminuire in maniera preoccupante l’attenzione a quotidiani e libri.

Non sarà necessario basare il ragionamento su percentuali e riferimenti statistici, né rilevare come, nella piramide di questi mezzi, Internet abbia un posto di preminenza, nelle declinazioni di televisione (pay tv o generalista), telefono cellulare e social media che, di fatto, ci collocano in un’area che è stata definita, con preoccupante evidenza, regno della transmedialità.

Ho riflettuto, quindi, e ne ho parlato con chi sembrava avere a cuore la materia, sul progressivo calo di attenzione -e sulla conseguente perdita di peso- di alcune questioni che dovrebbero essere fondamentali per ciascuno di noi, soprattutto in rapporto alle fratture che caratterizzano il periodo storico che stiamo vivendo: il definitivo tramonto delle ideologie e degli ideali, la rielaborazione in chiave consumistica o materialistica della fede (non necessariamente in ambito religioso), l’impoverimento e l’omogeneizzazione del pensiero, lo svuotamento della parola; quest’ultimo mi è sembrato il fenomeno più grave di tutti, non solo perché nella parola dovremmo riconoscerci, ma per il fatto che, svuotata quest’ultima di ogni possibile senso, condanniamo noi stessi e i nostri simili all’incomunicabilità, e quindi alla solitudine storica; l’aspetto più eclatante di questo allontanamento è nei messaggi di testo e nelle piattaforme che lo moltiplicano, sottraendo di fatto la voce alla comunicazione tra persone e le persone alla voce.

Non so se la cosa possa sembrare grave anche ad altri, ma un dialogo a distanza senza l’elemento fonico che lo contraddistingue diventa una codifica, una traslitterazione, e quindi non può più essere ritenuto tale; ed è da considerare più debole di altre forme di interazione, per ragioni che non sarà necessario richiamare.

Nell’opera di Nietzsche, riferendosi al trittico Al di là del bene e del male, la Genealogia della morale e La gaia scienza, Foucault distingue tre tipi di situazione-limite in cui le forze lottano tra loro: lo scenario in cui combattono le une contro le altre, la lotta contro le circostanze avverse, e quella delle forze contro sé stesse, ovvero contro la propria degenerazione.

Ora, se il momento critico sembra coincidere con la fase in cui quelle forze entrano in scena, o quando le stesse sono misurate in base alla loro intensità (e quindi secondo il pericolo che sono in grado di rappresentare), il determinarsi dell’evento, il farsi della loro apparizione, si sostanzia subito come l’unica situazione di pericolo, la sola circostanza da temere: non il vigore delle forze stesse, quindi, né la loro contrapposizione, ma il loro apparire in scena.

Vigore delle forze e reazione dei deboli, quindi, appaiono subito come fattori secondari rispetto allo scenario di un’epifania.

Proseguendo in questa impostazione, Foucault va ancora più avanti di quanto si possa dedurre dalle premesse, arrivando a far coincidere l’emergenza con il prodursi di una dominazione già in atto, già irreversibile e metastorica, con il luogo dello scontro tra forze avverse che diventa una pura distanza, affollata da attori -avversari- che non appartengono allo stesso spazio.

Il risultato più evidente è il capovolgimento della tesi hegeliana, la percezione dell’esperienza storica come fattore che emerge nel momento in cui un terreno comune non può essere rinvenuto e avvalorato, nel confronto tra agenti dotati di poteri distinti la cui differenza non è mediata da una più essenziale comunanza.

La libertà di esprimere le proprie opinioni, la libertà di informazione, l’esigenza e il diritto di informare e di essere informati. Per qualche ragione che è difficile dire, il ragionamento di Foucault sembra poter essere esteso a quelle libertà.

La Rete che ci rende parte attiva dell’informazione, che ci rende anche materia e fonte della stessa, il suo perimetro del possibile: una macchina complessa che ci vede, in teoria, al centro di un sistema di forze che è così ampio da apparire illimitato, che chiede un bilanciamento con altri diritti fondamentali, qualcosa che spaventa per il flusso ininterrotto di informazioni e dati, di esiti e di conseguenze impreviste.

Eppure, nonostante la molteplicità degli spazi e dei modi, la costruzione e la condivisione dei significati, il nostro muoverci tra gli spazi locali e globali da nomadi,- c’è un silenzio inquietante su argomenti e temi che dovrebbero essere avvertiti come urgenti, anche in presenza di eventi che minacciano il nostro essere e le sue costruzioni dalle radici.

Così, accade che chi si occupa di informazione (qui assumeremo il termine nel suo significato più ampio) si trovi in questo tempo ad essere marginalizzato o messo progressivamente in minoranza rispetto a categorie o obiettivi ritenuti più importanti, impoverito nelle risorse essenziali secondo un disegno programmatico, evidente, o privato delle condizioni per svolgere adeguatamente il proprio lavoro.

È quanto è accaduto a L’Intellettuale Dissidente, la rivista di agitazione culturale (come è bello leggere l’aggettivo agitazione prima della parola cultura) co-fondata da Sebastiano Caputo e Lorenzo Vitelli, che ha cessato di essere dopo dieci anni di attività (più esattamente, si è trasformata in Dissipatio), o a Yawp-L’Urlo Barbarico, la cui avventura collettiva si è interrotta di recente, ai caffè letterari e alle librerie indipendenti che sono state costrette a chiudere i battenti per “problemi congiunturali” (mi vengono in mente la Libreria Treves e Evaluna nella città in cui vivo, ma potremmo fare molti altri esempi , la Libreria Croce a Roma, la Libreria di Porta Romana a Milano).

Appare evidente, a parte i casi isolati in cui ancora resista un’adeguata mediazione, l’arbitrarietà del criterio secondo il quale si sceglie cosa abbia attualmente valore e cosa no, cosa possa rimanere aperto e cosa debba chiudere, le strutture che devono essere ridimensionate o eliminate e quelle che possono ancora andare avanti, ma l’idea che sembra passare è che il meccanismo di revisione che ha interessato interi settori produttivi sia stato esteso anche al pensiero, e alla parte più nobile dell’agire umano: così come sono stati dismessi o accorpati gli stabilimenti, gli uffici, le fabbriche e le attività, anche i contenitori tecnici che riguardano la parola e il pensiero vengono sottoposti alle stesse logiche e agli stessi principi di un’economia singolarmente semplice, che ha perso di vista gli elementi che concorrono a definire il valore.

E tutto questo accade proprio in un periodo storico in cui la parola e il pensiero sono ancora più importanti che in altri, perché ad essi spetterebbe il compito di interpretare una realtà ancora più complessa, nella quale l’umano e le qualità che concorrono a definirlo occupano un posto sempre più relativo, in cui si preferisce continuare a creare sistemi chiusi per condurre esperimenti discutibili, isolando formulazioni teoriche dai veri interessi del tempo.

Ecco, il punto è che dovremmo aver presente quanto sia necessario ogni contesto in cui si tenta di leggere la realtà, ricordare che in ciascuno di quegli spazi dove abbiamo letto il titolo di un libro o abbiamo conosciuto un nuovo autore -o dove ci siamo appassionati a un tema, a un’idea, dove abbiamo ricevuto formazione- ha avuto luogo una crescita, si è compiuto un beneficio che nessuna formula potrà mai sintetizzare o pesare: nessuna -dico nessuna- di quelle chiusure alle quali abbiamo assistito dovrebbe quindi lasciarci indifferenti perché, senza prevedere un’alternativa, incide sulla sostenibilità a lungo termine della comunità e del futuro stesso.

Mi viene in mente il testo del teologo tedesco Martin Niemöller, attribuito a Brecht, e vorrei ripercorrerlo qui sperando che ci ricordi qualcosa:

«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

                                                                                                                     

1 Comment

  1. Mi sembra un’analisi condivisibile anche se personalmente farei alcune note e cioè: a)Il pensiero nell’epoca della cybercomunicazione: b)esiste ancora il bisogno sociale, inteso anche come bisogno collettivo di una comunicazione autentica o sembra attestarsi la questione sopra ‘la convenienza’ a non approfondire le analisi e i contenuti perchè così ‘il pensiero’ stesso diventa un opportunista come qualsiasi altra forma del vivente, diventando dunque quel diabolicum del linguaggio che in qualche modo decide il da farsi, un gedanken concretum, di cui non siamo più espressione, di cui non abbiamo più nessun controllo, diventando un Golem animato di vista sua propria in qualche modo; c) il perchè di una operazione di intelligenza artificiale di questo tipo dovremmo ricercarla in ambito del farsi largo di un’altra coscienza a noi sconosciuta fino ad adesso. Tipo uno psicokiller a noi sconosciuto, una mutazione inaspettata di alcune biostrutture cognitive. ma a vedersi bene preannunciata da W.Benjamin Winnickot ed altri.

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