Elina Sventsytska | La crisi di primavera. Prima parte

a cura di Giovanna Frene


Proponiamo oggi la prima parte di alcune prose inedite, una sorta di diario dell’occupazione russa dell’Ucraina così come la poetessa Elina Sventsytska l’ha vissuta; la traduzione dal russo è della figlia della poetessa. Ringraziamo l’autrice e la traduttrice per l’eccezionalità della testimonianza, donata in esclusiva a Inverso.


SPOSTAMENTI #93
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole


Non ricordo cosa avevo sognato quella notte. La notte prima dell’inizio della guerra. Ricordo solo un enorme mostro ispido avvicinarsi, incombendo sulla mia testa e schiacciandomi.  La notte prima tutti dicevano:

– Ci sarà la guerra.

Ma nessuno ci credeva. La guerra era programmata per il 16 febbraio. Si aspettava ma non ci si credeva.

Nemmeno ora ci si crede, eppure è la realtà.

Mi sono svegliata alle cinque del mattino: mi sentivo male, il cuore. Ho dato un’occhiata a Viber. Un’amica di Donetsk scriveva: “Mi sono appena resa conto che è ora di cambiare completamente i piani per l’estate. Pensavo di andare a Pitsunda per la seconda volta, ma ora ho capito che più di tutto voglio andare nella mia preferita Svjatohirria, attraversare a nuoto il Seversky Donets nei dintorni di Lavra, sedermi sulla riva gessosa sotto i pini sporgenti… Elia, ora da voi comincerà quel che c’è da noi… Dimmi, cosa abbiamo fatto per meritarlo?”.

Io non ne ho idea.

*

Confusione e caos. Ecco cos’è davvero la guerra. Per gli esseri umani, non so per gli altri.  Anima sottosopra. Compassione… odio… paura dell’ignoto… paura e basta… orrore… Tutto questo è un groviglio di serpenti che si contorce, un tornado ispido e vorticoso, che risucchia le rocce, i rami, le schegge che si urtano con un crepitio, si frantumano in piccoli pezzi. 

Questa è la nostra vita. E non importa se partire o restare. La guerra ti troverà ovunque, non si può scappare, non ci si può nascondere. Perché in realtà è dentro di noi, come una pietra che brucia di dolore. Per otto anni abbiamo avuto questa malattia delle pietre: pietre dappertutto, e soprattutto sul cuore. Come si fa a vivere con queste pietre sul cuore?

*

Dopo tutto sto bene: non sento quello che sente la mia gatta. Che cosa la prende? Si aggira per l’appartamento, salta sul divano e poi improvvisamente si rintana in un angolo, fissandomi con occhi spaventati. Sta lì, ferma, immobile, all’infinito… Poi all’improvviso salta fuori! Corre e corre ancora… e all’improvviso mi guarda e piange. 

Posso solo immaginare. La terra che trema… Un buco nero dal quale escono e strisciano su ruote e cingoli delle masse di ferro, etichettate con delle lettere latine. Che bisogno avete di lettere latine? Ora sarà la scrittura del nemico… I cumuli di ferro stridono, scricchiolano, graffiano l’aria, ostinate e testarde, si trascinando sulla terra, sempre più vicino. Il ferro trafigge il cielo.

La gatta piange… Perché? Perché? Chi ha permesso tutto ciò? È mai possibile?

La gatta piange… Se ci pensi, non è niente… Se ci pensi ancora, noi, persone pacifiche, siamo così diversi da una gatta?

*

E non ce la faccio a proseguire il racconto: lasciamo parlare la gatta. Io davvero non posso, non ho parole. Forse la gatta sì.

Che paura. Paura. Paura. Dicono di calmarmi, va tutto bene. Ma in realtà nulla va bene. Tutto va molto, molto, molto male! 

Tutto sta crollando. Là, lontano, enormi massi stanno crollando, si sente un grido stridulo e disperato… Dicono che si tratti della sirena… Che razza di bestia è? Probabilmente un’enorme bestia squamosa, dentata, zannuta e con la coda. Ha le pinne, ma è stata gettata sulla terraferma, quindi ulula: cos’altro può fare?

Ma quel che spaventa di più è che si preparano i bagagli. La mia Protettrice si aggira per la stanza, si ferma davanti a qualche armadio, sta lì e piange… Afferra qualcosa, lo butta nella borsa, poi lo tira fuori e resta di nuovo ferma in mezzo alla stanza. E suo marito… non lo guardo nemmeno.

Ma cosa stanno facendo? Prendono le borse, le portano da qualche parte. E io? E io? Mi abbandonate?

Hanno preso le lumache dall’acquario, le hanno messe in una scatola, le hanno incartate. E io? Come sì fa?

Questo orribile trasportino. Ha l’odore della mia paura. La paura dell’ultimo trasloco. Non mettetemi lì dentro!

Non mi troveranno! Non mi troveranno mai. E se mi dovessero trovare, mi difenderò.

Resterò nascosta qui. Ma mi hanno catturata e mi stanno tirando fuori. Li sgrido, ma non mi sentono. Non capiscono… Voglio stare qui, qui, voglio stare qui, voglio che non ci siano borse, non ci siano rimbombi lontani, non ci sia dolore, dolore….

Orribile scatola… È fredda… Odora di benzina e di gelo.

Stiamo andando da qualche parte, andiamo, andiamo… C’è odore di estranei, di sudore, di lacrime. Si ondeggia e si piange.

Protettrice… Sento la sua voce… Dice che va tutto bene, che andrà tutto bene… Dice che siamo fortunati… Ma quando mai?

*

Sono in un tubo. Ferro arrugginito da ogni lato, fili metallici che grattano, schegge, segatura che mi cade addosso. Caldo, soffocante, tetro. Si deve strisciare. Il corpo è stretto in questa fornace che ogni minuto diventa più stretta, più calda e più nera. Il tubo è infinitamente lungo e non c’è luce alla fine. L’oscurità è densa e profonda, e c’è sempre meno aria. 

Ma in qualche modo bisogna muoversi. Bisogna infilarsi poco a poco, una goccia alla volta nel buco, che diventa sempre più stretto, in qualche modo bisogna andare avanti, adattarsi alle curve e ai tornanti, piegarsi e dimenarsi. Ma la forza è davvero poca. C’è sempre meno aria. Devo superare il torpore, trasformarmi in una rana, una lucertola, un verme, ma in qualche modo devo strisciare fuori da questo tubo, anche se c’è del limo e un’enorme palude che si estende sotto il sole sbiadito, sotto il cielo basso, dove non ci sono altro che piccoli alberi storti con foglie grigio-verdi.

Non ce la faccio più. Non riesco a uscire da questo tubo. Non riesco a uscire da questa tana. Vedo tutto nero davanti ai miei occhi. Non c’è aria. I miei polmoni si stanno rivoltando e si attorcigliano come un tubo. Davanti ai miei occhi c’è una nebbia rossa e un sole enorme, vicino e spaventoso.

Mi sveglio. È mattina presto. Stiamo semplicemente attraversando un paesino, l’autobus ondeggia, le ombre ondeggiano, le teste delle persone addormentate ondeggiano. L’aria densa del mattino entra dalla porta socchiusa. Una cittadina vuota, con i ricci anticarro sparpagliati per le strade.

Sbadiglio e guardo il mio Viber. Una certa Vera Rovina, a me sconosciuta, mi ha augurato sicurezza, salute, fortuna e pace alle cinque del mattino. Ringrazio Vera Rovina per i suoi auguri. Ma come fa a conoscermi? Ho diversi conoscenti con il nome Vera. Vera Nikolayenko lavorava all’Istituto di linguistica e amava molto i gioielli pesanti, portava catene e pietre al collo. Dov’è ora, chissà? Vera Kleimenova, una psicologa molto popolare che aveva sempre due notizie per tutti, una buona e una cattiva. Dove sarà andata? Dove trova ora le sue buone notizie? Vera Annenkova, una donna strana. Chissà come sta? Dove è finita, con le sue stranezze? Dove sono finite tutte? Dove li ha portati il vortice della guerra? In quali paesi sconosciuti porterà le nostre case abbandonate? Ecco che arriva questo turbine stridente con dentro i nostri pianti… che da lontano sembrano canti….

Vera Rovina, dove sei?

*

Non ce la faccio più.

Ora lasciamo parlare le lumache. È il loro turno. Ho molte lumache: ben ventinove. All’inizio ce n’erano due, ma bastò una piccola disattenzione da parte nostra, ed ecco… Naturalmente, non ci pensavamo nemmeno di buttare i piccoli lumacchiotti. Ora sono grandi, abituati all’acquario e al terreno… Li avremmo dati via, ma chi li vuole ora? Lasciamoli parlare, così almeno fanno qualcosa di utile.


Nasciamo con una casa sulla schiena.

Cresciamo, e la casa cresce, diventa forte, sviluppa intrecci e nascondigli, ci possiamo nascondere a lungo – e nessuno ci troverà. Portiamo con noi tutto ciò che possediamo (Omnia mea mecum porto). 

Ma ci hanno sollevato e ci stanno portando da qualche parte. L’acquario ondeggia, e la nostra casa ondeggia. La nostra casetta è con noi, ma ondeggia. Non è mai stato così freddo. È meglio non sporgere fuori neanche la testa, nascondersi nel terreno e starci nel buio, in profondità, rimpicciolirci, farci piccole-piccole.

Ma il freddo entra anche qui. Il freddo e il dondolio sono nauseanti.

E le voci, le voci, le voci.

– C’è uno che sta male! Chiamate qualcuno, sta male!

– Dal confine ci sono dei volontari che selezionano e portano…

– Dove portano?

– Ognuno sa da solo, dove andare.

– Non so perché sono partita, dove sto andando… Ho lasciato le polpette, non le ho messe nel frigo….

– Mamma, ho i piedi freddi!

– Il mio sedere è freddo! 

– Hai un piano?

– Che piano? Sto solo andando. 

Qualcosa che sbatte e rimbomba in un vasto campo. Il freddo dentro, il freddo intorno, entra nel mio guscio, lo riempie… Dobbiamo solo dormire. Indebolirsi e addormentarsi in silenzio, sprofondare sul fondo come un triste relitto della casa di qualcuno, sprofondare in un mare di latte caldo, nella pace e nella tranquillità. 

Ma non c’è nessuna pace. Non c’è nessuna tranquillità. Non c’è sonno. La nostra casetta ondeggia.

Qualcuno spinge la valigia di qualcuno, la gatta piange forte, la folla si è mossa e poi si è fermata di botto.

Il vento è fortissimo, le ombre sfrecciano, i cani abbaiano. Una lanterna ondeggia. È bello avere una casa sulle spalle, essere ancora a casa. Ma la casa… ora si sta contorcendo, siamo aggrappati alle pareti, ci stiamo riducendo all’ultima possibilità, fa paura. 

La nostra casetta sulla schiena sta per spezzarsi. Crollerà da un momento all’altro. Cosa ci sarà di noi? Rimarremo nudi e indifesi, strisciando su questa terra grigia, lasciando scie di sangue e muco. Le nostre teste con cornetti-occhioni ghiacceranno ai piedi della gente.

E la gente… Beh, sono tutti intelligenti, ma senza testa.

*

No, non abbiamo attraversato la frontiera. Non ci hanno fatto passare. La notte è un pozzo pesto. Dobbiamo trovare una macchina e andare nella città più vicina per ottenere un certificato. La frontiera fa paura. Ci congelano in code enormi, ci urlano contro, ci guardano male. Come se fossimo criminali. Come se fossimo noi il nemico. Il fatto è che siamo troppi. Non bastano le forze, per noi tutti. Dobbiamo rimpicciolirci in qualche modo, ma come?

Fa freddo. La gatta si è zittita. Se ne sta nel suo trasportino con i peli scompigliati e il nasino fra le zampe. Ho paura anche solo di guardare le lumache. Quante rimarranno? Probabilmente si ridurranno anche loro.

C’è una macchina. La rincorro, inciampo, la mia valigia si incastra sul bordo del marciapiede, per poco non faccio cadere il trasportino… Pronti, via!

È l’alba. Ma non fa affatto più caldo. Aspettiamo in piedi l’inizio della giornata lavorativa. Ci offrono il caffè. Qualcuno si è dispiaciuto per la donna tremante, che gentile!

Vado nella direzione indicata. La scritta “Mensa” sopra la porta imbottita di similpelle. C’è un grosso lucchetto arrugginito sulla porta. Un cane randagio si avvicina a me, annusa e abbaia. Non gli piace il mio odore. Sì, ho un cattivo odore. 

Torno indietro e l’attesa continua. Anche qui la fila è lunga e siamo di nuovo in troppi. Continuo a volermi ridurre… 

Non ci hanno dato il certificato. La miopia di mio marito è -10, invece per uscire serve -12. Così com’è potrebbe essere utile per scavare trincee.

Presto arriva la sera. Dobbiamo pernottare da qualche parte. Meno male che ci hanno indicato una palestra: quello è il posto per gente come noi. 

Ci hanno dato delle focaccine e del caffè… Grazie, grazie, grazie, grazie, grazie a tutti.

Che tortura vana per la gatta, per le lumache e per me.

*

Ora che sia la gatta o le lumache a raccontare. Stanno più comode. Perché siamo tutti sul pavimento, in palestra su un materasso. Brava gente ci ha concesso questo rifugio, grazie! 

Ma lei non vuole raccontare. Sta ululando in modo rauco. Certo, sta nel trasportino da due giorni. Le lumache giacciono immobili. Riesco a tagliare per loro qualche fetta di cetriolo, ma non reagiscono. 

Apro il trasportino.

La gatta emerge, annusando cautamente l’aria. 

La prendo in braccio e la stringo al petto, con le lacrime che le colano sul pelo.

La gatta trema e miagola. 

Dovrei dormire. Ma non ho sonno. Che cosa è stato? Cosa ci succederà?

Il passato è scomparso.

Non c’è futuro. Solo il presente ci fissa minaccioso da un angolo buio.

Nella fila accanto c’è una bambina sul materasso. Gioca con una bambola e le canta una ninna nanna con voce sottile:

Vorale, oo-oo; cantare, oo-oo.

*

Ancora una notte in palestra. E meglio se facciamo parlare la gatta. Le lumache giacciono ancora come se fossero morte. 

Chiedo a mio marito di mangiare, ma non vuole… Sono tre giorni che non mangia nulla… Sembra tutto normale e comprensibile, ma lui è in fase post-operatoria.

Sono le quattro del mattino. I pensieri si affollano nella mia testa, girano in tondo, uno dietro l’altro. Dovrei dormire. Dovrei tenere gli occhi chiusi, tenere gli occhi chiusi il più a lungo possibile, poi il sonno arriverà….

Dormirò e lascerò la gatta a raccontare ciò che vuole.


Ma davvero le stanze possono essere così grandi? È un dormitorio, ecco cos’è. Perché tutti sono sdraiati. Sul pavimento. A volte seduti. 

Grazie per avermi fatta uscire dal trasportino. C’è l’odore della paura, dell’ignoto e del freddo. Protettrice è sdraiata accanto a me, anche lei ha paura di qualcosa. Sua mano calda mi gratta dietro l’orecchio… è bello, ma ho ancora un po’ paura. Protettrice è sveglia e mi osserva per evitare che scappi… Neanche io voglio perdermi, ma devo perlustrare tutto. 

Materassi, materassi, materassi… Persone ammassate, luce fioca, stracci altrui stropicciati e caldi… Niente di interessante, ma non voglio tornare nel trasportino.

Una tizia sul materasso accanto, rugosa ma molto truccata, si è svegliata e dice a qualcuno al telefono:

– Invece io di mariti ora ne ho due: uno è disabile, l’altro vive in America. E tre amanti: uno è impotente, uno è omosessuale e il terzo è al telefono. Figo, vero?

Non lo so… Una vita da cani, una vera vita da cani!

*

Grazie alle persone che stanno cercando di aiutarci. 

Davvero, grazie. Stanno facendo quel che possono. Un uomo con i baffi tristi e flosci cammina tra le file, battendo i suoi enormi stivali, quasi calpestando le teste delle persone, per persuadere qualcuno:

– “Prego, servitevi pure, pirozhki (focaccine) caldi, con patate, con piselli… assaggiate, non siate timidi….

Delle mani sporche si protendono, delle voci mezze addormentate sussurrano dei ringraziamenti. 

Brave persone… solidali con noi. Hanno tutti i volti tristi: si rendono conto che il loro aiuto è una goccia nel mare.

Ecco, ti è stata bombardata la casa, ma ora puoi avere del tè. Hanno ucciso tuo figlio, ma ti danno un pirozhok. Il tuo appartamento appena comprato è stato saccheggiato, ma ti è stato dato un passaggio gratuito per metterti in salvo.

Mare delle perdite. Gocce d’aiuto. Goccioline. Non sembra avere senso. Ma forse non è inutile sentire che ci sono ancora persone buone nel mondo. Sono impotenti, ma ci sono. Ci sono, ma sono impotenti.

Non ce la faccio, sono confusa. Gatta, gatta, non scapperai da me, vero? Gatta, non scappare da me… Signore, Signore, fai qualcosa, salvaci tutti — umani, gatti, lumache! E da qualche parte del sogno esce fuori una anziana alta ed incinta.

– Vado a riferire a Dio le tue richieste, — dice.

So che lo farà. Eccola lì, seduta sul prato, a mangiare pane grigio morto. Credo di aver già fatto questo sogno… Fuori dalla finestra c’è una notte da cani.

*

Di nuovo ci trascinano fuori al freddo… La casetta sulla schiena non ci salva né da questo freddo che ci attanaglia, né dalle scosse e dai brividi, né dal vento feroce. Può essere che sono l’unica viva in mezzo a loro: non vedo e non sento nessuno. Può darsi che tutti i miei fratelli e sorelle siano al di là, dove non arrivano né il freddo, né la paura, né le voci. Là si sta bene, c’è umido e caldo, vi crescono alghe rigogliose e sotto di esse un fango vellutato e tenero, scorrono i fiumi lattiginosi e gli angeli cantano….


Siamo arrivati. L’autobus sputa benzina, trema, tossisce terribilmente. Sarà malato… tutti sono malati: le persone, gli alberi, le case… Casetta mia, bella mia, per favore non ti ammalare! Di nuovo ci hanno preso e ci stanno trascinando… Perché ci trascinano sempre da qualche parte e non ci chiedono se lo vogliamo o no? Dopo tutto, non abbiamo mai fatto male a nessuno, eravamo lì nelle nostre casette, vivevamo in pace, quindi perché ci tirano e ci trascinano? A che pro? 

La sirena suona. Tutti saltano fuori e corrono. Tutto trema, nell’aria si diffonde un sommesso raschiare di ferro contro ferro. O è il digrignare dei denti della gente?

Oscurità. Manca l’aria, ma si respira. Freddo. Di nuovo freddo. Nel buio pesto, si sente la vocina di un adolescente:

– Quando tutto questo sarà finito, mi comprerò una torta “Kiev”. E la mangerò tutta intera. Con la forchetta!

– Io invece mi ubriacherò e canterò! A squarciagola! Un inno!

– Tanto abbiamo aspettato la fine del mondo, ma era arrivata ormai da tempo, e nessuno se n’era accorto.

– Sì, ognuno ha la propria fine del mondo…

– Sono così stufo di voi e delle vostre fini infinite!

Io invece ho una casetta sulle spalle. Forse sono l’unica rimasta al mondo. Non ho niente da fare, non ho un posto dove andare… Ora sono tanto piccola, tanto misera, e la coscienza mi sta lasciando per sempre. I fiumi di latte scorrono, gli angeli cantano e si può uscire dalla casetta sulla schiena e camminare su un sentiero accogliente, sull’erba verde, sul fango tenero, sotto la pioggia silenziosa.

E si sente una voce arrivare, forse dal paradiso: 

– Per dispetto a questa sanguinosa guerra non guarderò nessun telegiornale e posterò ogni genere di cavolate femminili!

*

Ci fermeremo qui e ci riposeremo. Passeremo la notte e poi andremo avanti. È una città enorme. Un’enorme città estranea, forse neanche città: una specie di set cinematografico della Seconda Guerra Mondiale. Un’enorme coda all’ufficio di arruolamento, la gente in attesa, sotto il vento penetrante…

Ci sono militari armati per strada, mezzi corazzati e carri armati che rombano. Ad ogni angolo c’è un posto di blocco, e ogni posto di blocco è ricoperto da filo spinato, i ricci anticarro sono cupamente irti e i sacchi di sabbia sono ammassati tutt’intorno.

Questa sarà la nostra casa. Per un giorno o due. È tutto imprevedibile, come muoversi ad occhi chiusi. Bisogna prendere decisioni incessantemente, ma gli elementi in gioco cambiano ogni istante. Non ci resta che leggere le stelle.

Questa è la nostra casa, sembrerebbe. È un monolocale. Ci sono altre tre persone oltre a noi. Una grande cucina con una finestra enorme, senza termosifoni, e una camera minuscola con solo un divano stretto.

Facciamo uscire la gatta dal suo trasportino e le diamo qualcosa da mangiare. Si guarda intorno malcontenta, ma mangia. Le lumache rimangono immobili, interrate. Che cosa facciamo dopo? Ci sediamo sul divano, fissando i nostri telefoni, in silenzio, assopiti. Attraverso il sonno ascoltiamo le conversazioni dei vicini:

– Putin? A Putin ora tocca salvarsi la faccia in qualche modo…

– Ma se ha perso la testa, che senso ha preoccuparsi della sua faccia?

– Stamattina ha telefonato a mia madre. Ha descritto degli orrori, roba da incubo. Non le ho creduto nemmeno… Ma le hanno dato l’indirizzo e la data d’uscita del giornale dove tutto questo è descritto nei dettagli.

Favole spaventose, favole con fiocchi… senza quelle che vita sarebbe? L’acqua gocciola dal rubinetto, gocciola e gocciola… Ogni goccia riecheggia nella testa, rimbombante, tetra. Gli infissi delle finestre oscillano, il vento gironzola per la stanza come se fosse a casa sua. Il ghiaccio è già sulla mia anima, come i cristalli che aveva usato Kay per comporre la parola “eternità”. Noi invece con quei cristalli di ghiaccio non riusciamo a combinare nulla….

— Sono capace di grandi cose in circostanze ecsremali, — dice il vicino, entrando in cucina. — Mo’ mi cucino un wurstel gigante!

– In circostanze estreme, — correggo automaticamente. 

Perché sto correggendo, chi mi ha chiesto? Come se si potesse correggere qualcosa…

Ora me ne sto seduta su uno sgabello con la testa tra le mani, gli occhi chiusi, ascolto il ronzio del frigorifero.

[continua]


Elina Sventsytska, nata in Russia ma vissuta in Ucraina, è poetessa, scrittrice e ricercatrice nel campo della teoria letteraria, ed è autrice di numerose pubblicazioni artistiche e scientifiche.

Elina è responsabile della Cattedra di Filologia slava e giornalismo all’Università nazionale V.I. Vernadskij a Kiev: nel 2014, infatti, a causa della guerra vi si è trasferita da Doneck, dove fino a quel momento insegnava nella facoltà degli studi umanistici dell’Università nazionale.

Scrive poesie in ucraino e racconti in russo. È autrice di otto libri: collane poetiche, racconti e piccoli romanzi. Le sue opere sono state altresì pubblicate nelle principali riviste letterarie in Ucraina e all’estero. Le poesie ed i racconti sono stati tradotti in pollaco, inglese, francese, italiano. 

Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il primo premio nazionale “Pianeta del Poeta” (Ucraina), il primo premio della Biblioteca Ucraina (Filadelfia, USA) e il premio nazionale di M. Vološin (Ucraina), nonché e il terzo premio del Concorso internazionale di prosa breve «Senza confini» (Barcellona, Spagna). È tra i principali partecipanti del progetto “Voices of Ukraine”: una serie di letture e discussioni con dei poeti e scrittori Ucraini, organizzato da Leslie Center for the Humanities per gli studenti del Dartmouth College (USA).

Elina racconta: «Sono tra quelle persone a cui la guerra è toccata in sorte ben due volte; infatti per due volte ho dovuto lasciare la mia tanto amata casa e scappare: nel 2014 da Donetsk a Kiev e ora da Kiev in Italia».

Nella sua poesia e prosa degli ultimi anni Elina non si limita a raccontare l’esperienza diretta della guerra, iniziata nella sua città natale e tutt’ora in atto. Rivela infatti le esperienze delle Persone, quelle chiamate “internamente dislocate”, quelle che dopo aver perso la propria casa si sono trovate costrette a spostarsi verso l’ignoto.  Dare voce a queste Persone è per Elina una missione speciale, un impegno personale. 

Ultimamente scrive le poesie in italiano, un modo della poetessa per integrarsi nella nuova cultura e società.


Rispondi

Scopri di più da Inverso - Giornale di poesia

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading