Anna Maria Curci – Nei giorni per versi. Nota di L. Toma

Nota a cura di Lucio Toma

Le poesie di Anna Maria Curci, le centosettantré quartine di endecasillabi che compongono l’ultima sua raccolta Nei giorni per versi (Arcipelago itaca, 2019), costituiscono una “immersione sonora in un coro di voci liquido ancorché capace di perfetta armonia”. In realtà, quelle che a Patrizia Sardisco nell’ottima prefazione appaiono come voci di un coro estremamente riuscito, a me ricordano piuttosto un’orchestra registratissima di cordofoni, banjo e ukulele in primis, cioè di strumenti musicali a quattro corde come quattro sono i versi di ciascuna poesia, che sapientemente la penna-peltro della poetessa riesce a suonare sui temi più svariati dell’esistenza. Ogni poesia è pertanto un pentagramma perfetto di una sinfonia che si apre su un diario intimo e toccante quanto collettivo e contemporaneo. Allora autobiografia diaristica e registrazione della quotidianità, contemplazione del sé e condivisione della complessità esistenziale si incontrano e si fondono come “pegno e impegno” assoluti, imperativo poetico, di poetica. Perciò, se a volte è il quotidiano dei suoi interessi che si fa ricordo:

Prendevo anch’io il tranvetto della Stefer
(chi lo ricorda più, dimmi, poeta).
Andavo dal maestro di chitarra,
mentine in tasca e speranza, un cartoccio.

Altre volte si interroga sui grandi temi esistenziali, quelli perenni e metafisici…

Di che materia è fatta questa morte?
“Ghermisce” è una parola accovacciata.
Bivacca, perde il pelo e pure il vizio,
sta nel disinteresse la sua chiave.

Oppure s’infittisce la richiesta di un senso dell’essere e dell’appartenere alla vita così densa di mistero già a partire dal riflettere su gesti minimi e quotidiani…

Come a un calzino rivoltato in dentro
vado tastando buchi e cuciture
a te, mistero, decriptato a sbafo,
che ritorni per essere incompreso.

Altre volte è la paura a emergere così teneramente nella nostra poetessa, un sentimento che non nasconde e neppure esorcizza in banali pietismi come pure saremmo più facilmente indotti a fare nell’epoca lustra del consumismo.

Senza uno straccio addosso, neanche un verso,
mi lascia, sempre ingorda, la paura,
come quegli impettiti soldatini,
spezzati dentro e fuori sorridenti.

E se è vero che la nostra avrà amato la chitarra, questi versi hanno il timbro dell’ukulele, che basa la sua musicalità su punti di suono in corrispondenza di precisi pallini, gli accenti. Perciò non sorprende la grande forza espressiva di queste esecuzioni artistiche, modulate su un impianto tecnico di base straordinario, perché non dimentichiamo che Curci, oltre a essere profonda lettrice, è una sapiente traduttrice, una traduttrice che si emoziona di e per ciò che legge, e che vi lavora con dedizione, anzi devozione…

Devozionale è la tua traduzione
che vai limando con le guance accese.
Lo so: cerchi rifugio dall’orrore,
ma l’imboscata, quella, sa aspettare.

Abilità fonico-linguistiche che si ritrovano nel capacità di calibrare, e direi dosare e miscelare (per ampliare il raggio espressivo a più campi), nell’uso straordinariamente acuto e ricercato del lessico per cui “qui tutto è frutto di un paziente lavoro di bulino perché il verso si faccia più prossimo al vero” – continua Sardisco, che a proposito della scelta formale ribadisce “la tensione verso un’armonia geometrica che è al tempo stesso contenitore e contenuto, schema metrico e metro dell’esistenza: il “farsi in quattro” sul piano etico-politico e (è) lo “squartarsi” sul versante poetico; l’essere quattro note nello spazio di tre, versarsi in quattro tempi per restituirsi intera”. “L’essere quattro note”, dicevamo, ed ecco che torna il suono e la musica; lei tanto appassionata da far parte di un coro di voci polifonico, e non certo per caso. Così “farsi in quattro” se è modo di dire, in Curci è essenzialmente modus operandi sul piano etico e morale, rigore e coscienza esistenziale che coincidono con la poetessa e la poesia. Vita e letteratura coesistono in lei, la vita si fa poesia e viceversa. La poesia di Curci, quindi, si esprime con una precisa consapevolezza della materia poetica in una limpida esecuzione melodica, una perfezione o armonia così bene evidenziate nella prefazione di Sardisco. Ed è quel che si evince per esempio in questa splendida quartina:

Non ho mai fatto il cambio di stagione.
Libri sghembi e vestigia ammonticchiate
sono compagni d’ore e d’omissioni
schedari e fusciacche d’altre sfilate.

D’altronde è la stessa Anna Maria a indirizzarci in tal senso, se è vero che nella sua nota introduttiva afferma di assumersi il “rischio” formale sopra indicato per due motivi: “in primo luogo perché è in questa forma conclusa che pensieri, motti di spirito e moti dell’animo si presentano alla mia coscienza, in secondo luogo perché l’impalcatura regolare impone riflessioni, soste, dà spazio e respiro…”. È chiaro che se in molti poeti contemporanei il vincolo formale dell’endecasillabo abbinato alla quartina fissa un quadro rigidamente espressivo, o nel peggiore dei casi un ingombro limitante, nella Nostra viceversa è possibilità espressiva, “necessaria e imprescindibile di poetica: la forma è – anche – contenuto, soprattutto la forma non è mera cornice o contenitore arbitrario e fungibile, concorre a costruire quella gamma di infinite possibilità proprie della poesia” – conclude mirabilmente sempre Sardisco. La discussione è aperta, di certo in pochi si assumerebbero e si assumono la responsabilità di interrogarsi sul mondo e sugli altri con lo stesso coraggio formale di Curci, affinché la poesia si renda autentica nella brevità, senza essere ermetica:

Mi sogno di incontrare tanta gente
sul selciato delle buone intenzioni.
Ma inciampo sempre con i tacchi a spillo
e vanno gambe all’aria le illusioni.

Autenticità che si fa carico dei grandi interrogativi e problemi della quotidianità, capace quindi di richiamarsi alla Storia e alla cronaca quotidiana in termini che paiono tanto didascalici quanto puntuali, e di schierarsi sempre in favore dell’Umanità:

Ci avvisarono in classe, era il liceo.
Scorta spezzata in via Fani, il sequestro.
Tutto è finito, si affacciò il pensiero.
Fu allora che la notte invase il giorno.

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