Gabriele Galloni – Inediti da “Petlog”

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Mio fratello, di anni diciassette, si uccide ingoiando un tagliaunghie. Le vene del collo gli si gonfiano, sputa qualche goccia di sangue perché l’oggettino gli ha ferito la gola, e muore soffocato con gli occhi enormi fuori dalle orbite; un’espressione in tutto e per tutto simile a quella di una rana, in un cartone animato, schiacciata a morte da un piede nudo. Mio fratello è, cronologicamente parlando, l’ultimissima vittima del #Bluetoo; uno strano movimento che invita i suoi adepti a uccidersi con utensili atti alla cura della persona. Lo scopo ultimo del #Bluetoo è far sì che il mondo diventi una enorme catacomba virtuale, stipata di video in cui giovani e giovanissimi si uccidono su sfondo color magenta – e si uccidono con piastre per capelli, pettini, rasoi da barba; tagliaunghie, appunto. E proprio ora mi stanno restituendo, completata l’autopsia sul corpo di mio fratello, il suo tagliaunghie. Devono averlo ripulito dal sangue; ché avvicinandomelo agli occhi riflette bene il mio viso, la mia barba rada, la finestra alle mie spalle e il cielo estivo che essa contiene oppure inquadra.

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Avere una ragazza è bello, ma non averla più è favoloso. Dopo la fine della mia storia ventennale mi sono dato letteralmente all’ippica; ho cominciato, insomma, a frequentare gli ippodromi della mia città. È bella e varia l’umanità che affolla gli ippodromi – e se cerchi un amico vero è sicuro tra gli spalti di un ippodromo che puoi trovarlo. E infatti il mio lo trovai lì. Si chiamava Sergio, ma tutti nel giro lo chiamavamo Sir Joe per il suo aplomb e la sua crudeltà da vero lord inglese. Girava portando sempre con sé un coltello a farfalla che non esitava a tirar fuori a ogni occasione. “Come,” diceva sempre, “tirerei fuori il mio cazzo se lo avessi ancora tra le gambe.” Sergio era stato evirato anni prima per una orrenda storia di droga; e quel coltello era un po’ il suo contentino, l’unico modo (a parte i numerosi peli) per restare ancorato al suo futile sesso di nascita. Quante avventure con Sergio. Eravamo inseparabili. Passavamo le notti a bere e a guardare il video con la presunta Ilona Staller che – va be’, avete capito, no?
Io in quel periodo ero stato appena licenziato e a Sergio era morta la madre che lo manteneva. Dunque urgeva restare a galla e i proventi delle scommesse, magri e occasionali, non bastavano a sostentarci. Eravamo già sulla quarantina e scartammo presto l’ipotesi di smarchettare in giro; ché ci sono pure gli appassionati in cerca di uomini di mezza età, ma per forza di cose Sergio poteva essere solo passivo e io avevo una tremenda paura di infilare il mio arnese in un buco dal quale esce anche la pupù (non vi sembri ingenuo il mio chiamarla così; alcuni traumi hanno depotenziato il mio linguaggio e spesso devo tornare ai termini dell’infanzia per non scoppiare a piangere).

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