Vanina Zaccaria – “Non si muore di notte”

nota di Antonio Fiori

In questa poesia, nonostante la nominazione di luoghi e percorsi, tutto accade in un tempo sospeso, dove si attende inutilmente lo stesso sogno e si sta “nell’istante che intercorre tra l’invocazione e il pianto/…/nell’istante che passa tra la vita e la morte”. Sembra di essere sempre in procinto di un’apparizione ulteriore o di una rivelazione ma alla fine, “nel labirinto minoico della memoria/…/l’anima si fa muta”. Gli esseri umani che appaiono – un padre, una ragazza, i venditori, “il vecchio nella pesante giubba” – raramente hanno un nome (se l’hanno sono nomi di donne, Isidora, Remedios, Isabella). La raccolta è divisa in due cicli, il primo radicato in un esergo di Odisseas Elitis sulla chimera della memoria, il secondo nei versi di Seferis sulla lunga attesa del Nunzio, che potrà far ricominciare “il dramma antico”. L’autrice sa di trovarsi in questo tempo indefinito e ondivago – “Invecchieremo in una sola ora, tutti assieme/ le madri con i figli, i figli con gli altri figli” ; “Non ho memoria del tempo/ che ha scavato la mia figura/…/ Sono già polvere i nostri cappelli” – e denuncia la sua impotenza e la sua paura: “mi tormenta, di notte/ la paura di scomparire”. Si accorge che ci vorrebbe un altro linguaggio, “un’altra consistenza”, per proseguire nel verso e nel racconto. Alla fine una sorpresa, un’epifania, ci accorgiamo infatti che la voce del poeta parlava da un’altra dimensione, che l’io narrante non era più di questo mondo: “Venni meno come un arbusto”, ci dice. La voce che ascoltavamo era quella di “una statua smangiata”, che aspetta ormai il suo interlocutore “sulle rive del Magra/…/ alla foce dell’Aniene”, dove “i nostri corpi di marmo/ non sono che un riflesso”. Vanina Zaccaria si dimostra dunque latrice di una poesia molto originale, dove il verso, strutturalmente antilirico, ha invece un continuo effetto evocativo della lirica antica. Una poesia però anche capace di interrogarci costantemente: sul Tempo, sulla vita, su quello che resta.

*

Tutta genuflessa eri
Come l’albero che si assottiglia
Quando la terra si spalanca


Come il portone della chiesa che crolla
O come l’asciutto e muto calanco
Come tutte le cose
Eri
Nel momento in cui si fanno primitive
oppure prossime alla disfatta


Tutta piegata eri, come la casa di mattoni
Quando la terra si scuote
E il piccolo campanile si disorienta


Con le mani che non tengono
Hai sceso lenta la parete di roccia
Il piccolo piede gemeva
A ogni curva


*


Hai come un coriandolo negli occhi
memoria precedente del carnevale
e attendi un tempo nuovo, già corroso altrove,
che sarà, dici, spalancato a forra

Anche nel posto in cui si muore
si continua ancora a risplendere, come calcite
Il posto in cui sempre ti trovo
stretta alle cartilagini


Le enormi forme della pietà
ti fanno ombra e ti sopravvivono

*

Venni meno come l’arbusto
sotto il tiro dell’inverno
di me rimase l’ombra di terra
presso il cinema vuoto
Dentro solo la macchina continuava a svolgere
con un ronzio simile a un nido di api
Mi tornò la memoria di mio padre
che dormiva sui sedili reclinati, nel cinema muto,
e il suo sonno di marmo
sembrava l’approssimarsi della morte

Mi riempii la bocca di terra
per sentirmi cruda e viva
tra le altre pietre e le altre piante

*

n.d.r. grazie a Giovanni Ibello per la cura e la segnalazione

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