Michele Bordoni – Gymnopedie

di Arianna Vartolo

“Preghiera e perimetro di voce” nelle Gymnopedie di Michele Bordoni

È particolare che il libro di Bordoni si presenti al mondo con un titolo legato da una parte a delle composizioni, dall’altra ad eventi di celebrazione sacra: il riferimento è rispettivamente alle Gymnopédies (Parigi, 1888)di Erik Satie e alle antiche feste spartane organizzate in nome degli dei Apollo, Artemide e Latona. Particolare perché? Perché gli “esercizi per resistere al dolore” del giovane poeta (classe 1993; la raccolta è stata pubblicata nel 2018 da Italic) riportano piuttosto a una dimensione di frattura, di disgregazione; a una voce sommessa che parla dall’interno, profili essenziali di una realtà che scorre carsica nel sottosuolo. Nulla che sia richiamo a qualcosa di composto o alla dimensione celebrativa di una festa, dunque, quanto più alla costante scissione del mondo; alla riduzione, al limite. Al “perimetro di voce”.

Ho deciso volontariamente di intendere il termine “composizioni” in senso etimologico e non musicale: ciò che è legato a tale aspetto parla da sé nelle tre sezioni che dividono il libro stesso – titolate proprio secondo i brani di Satie – oltre ad essere stato già ampiamente affrontato in altri scritti, a partire dalla stessa prefazione di Emanuele Franceschetti. Ciò che invece non ho potuto fare a meno di notare è che in Gymnopedie tornano con insistenza quasi cadenzata dei macrotemi che entrano in continuo dialogo tra loro come coppie oppositive che, in questa dinamica dicotomica, finiscono però con il completarsi a vicenda. Un processo di resistenza alla tensioneche, in realtà, scopriremo essere più un tentativo di (as)soluzione.

L’asse portante è quella del linguaggio/non-linguaggio: nelle poesie di Bordoni si scorge una concezione del vivere che è imparare a dire il mondo, a dirsi nel mondo. Una sorta di dasein verbale, ma in cui la parola “si resta ad aspettare” e si chiede “di trovarla in un difetto/ di pronuncia”; è un dire in absentia quindi, sovvertito e legato a ciò che manca più che a quello che c’è. Una menomazione che impedisce di nominare e di nominarsi (il paradosso è affrontare tale questione in una raccolta poetica, caratterizzata oltretutto da una scrittura estremamente raffinata) e che porta così all’impossibilità dell’esistere pienamente. Il non-esserci nel non-dire/dirsi crea una pausa esistenziale, “lo sgomento di capire/ quanto sia difficile accadere”: questo verso è il “Can’t believe how strange it is to be anything at all” che canta il gruppo indie rock statunitense Neutral Milk Hotel nel suo In the Aeroplane over the sea (1998). Non riuscire a credere, non riuscire a definire, quanto sia strano essere qualsiasi cosa – quanto difficile (ac)cadere in una forma.

In questa impasse “resta quel che si tace/ ad insegnare/ l’impossibilità del dire e del restare”. È qui che si arriva alla morte del linguaggio, dove tutto quel che si poteva dire (che si poteva essere) “è stato già detto” e non ci si può più fermare ad attendere alcuna risposta. La frattura è insanabile e l’unica realizzazione permessa è quella della voce sommessa o del totale silenzio. Bordoni dice che “è qui,/ è qui che si fa urgente e necessaria/ la parola”- proprio dove e quando è “la sua impotenza/ a farsi indispensabile”. Il crepuscolo, la ferita, creano dunque un nuovo spazio di visione, un luogo nell’inesistenza che deve trovare i suoi contorni in questa indefinitezza; dopo che il Verbo fattosi corpo trova la sua fine comunicativo-esistenziale, si deve imparare un nuovo linguaggio. La formula che l’autore propone è di una intimità sacra: si regge su un equilibrio in cui “resistere ed avere un’eleganza” è il rito di riconquista della parola; l’umiltà della terra in cui rifarsi nitidi, da cui iniziare a tracciare un “perimetro di voce” che sembra assumere le funzioni di un pomerium, margine divino entro cui trovare una traccia di salvezza – seppur ancora precaria.

La catabasi conduce all’immersione in un Lete che, dopo l’amnesia dell’essere, porti a un “ridirsi” – al risalire. Quest’acqua è un altro degli elementi che nelle Gymnopedie danno vita alle coppie oppositive citate in principio. Il poeta ci mostra spesso la sua presenza o come agente di corrosione, di trascinamento nell’abisso – acqua universale che “scava solchi” (“solco” è parola che torna con insistenza nell’opera) in un “pianto della terra”; oppure come luogo di riposo per quella “sacra stanchezza” da cui emerge una “gioia strana della vita”. Sembra quasi divenire un liquido amniotico che conservi e nutra prima di quel nuovo “accadere” tanto anomalo quanto fisiologico nel processo di riacquisizione del corpo/linguaggio.

L’acqua gioca un ruolo fondamentale nell’(as)soluzione che ho nominato all’inizio: mezzo e stato di scioglimento di quei coaguli esistenziali che nella poesia di Bordoni si presentano come grumi emotivi in corrispondenza del richiamo a una lei amata. Più di una volta, infatti, il tema sentimentale viene affiancato – in una nuova tensione –   all’immagine della ferita, del taglio, del sangue; un rosso che si distingue nel grande azzurro che tanto spazio trova nel libro. Un leitmotiv cromatico che dà indizi su quello che, proprio alla fine, l’autore stesso definisce “un omicidio intenzionale, terribile, iroso”: nelle pagine in prosa poetica che chiudono la raccolta vengono esposte tutta la fragilità e la crisi del confronto con il femminile, nella sua figura o nella sua essenza. C’è un solo elemento che sfugge a ogni ordine oppositivo sin qui esaminato, solo uno che segue inversamente ogni discesa infera legata al peso dell’esistere: la madre. È innalzata nell’azzurro del cielo, in un moto quasi ascetico quasi mistico, tutto donato alla verticalità di una leggerezza che sembra non appartenere ad alcun essere che sia umano. Assume, quindi, la sua carica divina che intera risiede nella sovversione della catabasi che percorre ogni pagina dell’opera.


Dissiparsi, e lasciarsi svaporare.
Questo soltanto a noi che permaniamo
nel perenne congedo senza quiete.
O almeno lo sgomento di capire
quanto sia difficile accadere
e saper dimorare nei preludi,
in un lascito minimo dei giorni.

*



Vorrei che la parola decadesse
ebbra di pienezza nel crepuscolo
dell’espressione, quando è sufficiente
la linea, essenziale. O il silenzio.
Appartenere alle cose mediane
come l’autunno che torno a ricevere;
abbandonarsi allo svanire veloce
e dalle foglie imparare a cadere.

*



(a mia madre)


Quella fotografia di te da giovane
congiunta come un tendine all’azzurro.
Ti preparavi al volo, in verticale;
e poi era il salto, la piroetta rapida
nel vortice castano dei capelli.


Questo mi sorprendeva da bambino
di quel numero abile, di te:
la tua voglia di sfuggire alla pesantezza,
sovvertire in altezza la gravità
e conquistare in aria la tua carne.
Non era gioco o semplice esercizio.
Era il tuo modo estremo di resistere
al richiamo opprimente della terra.


Ritrovarlo negli occhi stanchi e offesi
Il balzo che facevi da ragazza;
questo basterebbe, confermarmi figlio
del tuo affidarti al vuoto che ti libera.

*



Bisognerebbe estinguersi, aderire
alla parola che genera la storia
e in essa sbracia, si risolve in fumo.
Oppure basterebbe amarla l’aspra
pena del corpo, l’irriducibile
testarda rimanenza di se stessi
che sfugge all’armonia, all’architettura.


Saggezza della pietra di Trieste
spazzata dalla fredda ala del vento;
misericordia altissima dell’acqua
che sempre la disgrega e la conferma.


Michele Bordoni, nato nelle Marche nel 1993, ha pubblicato, per i tipi di italic, Gymnopedie (2018). Alcuni suoi testi sono inclusi nell’antologia Abitare la parola (Ladolfi, 2019) e nella rivista internazionale “Gradiva”. Collabora come redattore per alcune riviste online, quali “Nuova ciminiera” e “Atelier”.

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