proposta della redazione
n.d.r. È nata, per i tipi di Fve, la collana Animula Vagula Blandula, diretta da Giorgio Ghiotti. I primi titoli pubblicati sono Stig Dagerman. Il cuore intelligente, di Ilaria Rossetti e Franco Loi. L’erede del sole, di Rudy Toffanetti. Proprio di quest’ultimo proponiamo un estratto ai lettori.
Non è questo genere di cose a fare male
Mi chiedevo sempre che cosa sarebbe accaduto quando i genitori sarebbero morti. “Nulla, vedi tu…” La sua voce era un filo, “Tu sarai grande e avrai la tua vita. Non ti preoccupare, non aver paura. Non è questo genere di cose a fare male.” La casa di Franco e Silvana era piena di ritratti, quadri che sbirciavano le nostre schiene flesse sul tavolo, le sue mani intrecciate d’anni sulla tovaglia e le mie appoggiate sopra un quadernino nero e una bic, come una preghiera. Non so perché in quel momento gli feci quella domanda. Ricordo che nelle strade di Pavia, acciottolate come il letto di un fiume, fissavo la magnolia sfiorire nella primavera esplosa, e pensavo che un giorno avremmo perso tutto, lasciandoci alle spalle ogni stella che ci avesse guidato. Franco come sempre disse poco e poi si perse nel filo di ragionamenti che solo lui seguiva, un arazzo lavorato in cui con semplici opposizioni tesseva una teoria del mondo. Non il mondo fuori, quello dato dei fenomeni – ma il mondo dentro, quello dei suoi occhi che a poco a poco si spegnevano, perdendo luce e avvicinandosi all’ombra. La maculopatia cominciò così, con macchie e buchi nelle iridi che piano piano si allargavano nell’occhio: laghi di mistero che inghiottivano il corso cristallino della vita. Ma era canterina la sua voce, uno scampanare allegro di domenica, somigliava sempre più al vento e prendeva la forma di tutto ciò che è vago. All’inizio Franco continuò a leggere con l’ausilio di un marchingegno, o un affare come lo chiamava lui: un lettore che ingrandiva il testo su uno schermo retroilluminato. Faticava seguendo la linea dei versi, reggendo i fogli con una mano e con l’altra la sua lente, si perdeva e poi si ritrovava, annusando quale fosse la strada più giusta per arrivare all’ultima lettera. Anche così quando leggeva cantava, cadenzando tutti gli incisi, abbassando il tono e il ritmo fino alla stasi, e poi si riprendeva, cavalcando con vigore e dolcezza fino alla fine. Tutti vedevano che la sua era una forza di ferro che nulla aveva a che fare con la violenza: era un temperamento, un vigore e una testardaggine, modellata dagli anni eppure innata. Franco con Silvana teneva insieme molti paradossi: era la complessità dell’amore sui fragili tasti di una Olivetti verde oliva che dormiva nel suo studio. Quando mi recai da lui la prima volta, era una giornata di maggio soleggiata. La chiamata in cui mi disse: “Viale Misurata 60” mi raggiunse alla stazione di Pavia, in un tramonto altrettanto caldo che scioglieva i treni. La luce del salotto dove mi ricevette – e dove mi avrebbe ricevuto per i sei anni successivi – era una penombra adatta ai suoi occhi, poiché le finestre, che davano a est, non raccoglievano il sole, la sera, ma soltanto i clacson della circonvallazione. Si chiudevano così, per Franco Loi, gli occhi, con uno sfumare di luci: “Io ti vedo nella nebbia” diceva, e avresti detto che la stanza fosse piena della sua scighéra. E ti saresti sbagliato, perché non era nebbia quella, non era pulviscolo insensato ciò che vedeva: erano macchie di colori, ombre che danzavano tutt’intorno e creavano forme che solo lui sapeva leggere e decifrare, come un astrologo.