Andrea Napoli | Gengive

prefazione di Vincenzo Montisano
da Gengive (Tralerighe, 2021)


La raccolta Gengive di Andrea Napoli si configura come un’esperienza carnale cui mai sangue fu più straniero. Accetta la materialità del mondo e il suo corpo come ovvia evidenza, fin dal titolo, ma li tratta con interesse da coroner che ostinatamente cerca barlumi di metafisica nel cadavere dell’esistenza. Lo stile oggettivo di quest’opera, la versificazione disseccata da ogni posa libresca o, peggio, in odore di poeticità, denudano la pancia di un litorale linguistico fatto di termini semplici, quotidiani, espressioni aforistiche familiari. L’ossatura della silloge, articolata in sette parti, è un congegno di testi poetici a lunghezza mutevole, dotati di un via via crescente numero di versi che, da capo a coda, vanno dai sei ai quindici, passando per i nove e i dodici. Questo schema, al quale sfuggono soltanto tre importanti componimenti di più ampio respiro – tre come i versi aggiunti tra una sezione e l’altra – è in forte controtendenza rispetto alla moda dilagante del verso ultra-libero. Rifiuta la voga dell’emancipazione sbrigliata che afferma una foggia libertaria, tanto anacronistica quanto ammantata di inattendibile anticonformismo, se non trapunta di debite accortezze. Chi opera una scelta in tal senso, seppure in sordina, flirta con l’idea che di libertà non si discorre se questa non copula fervente con la propria nemesi, il concetto di limite. Qui, e non oltre. Ora, e non prima né poi. Gengive è il manifesto di un uso colloquiale della lingua, spesa per descrivere nervi erotici di relazioni decomposte e brevi stupori imprevisti covati sotto oggetti comuni, orbitanti attorno ai nostri più soliti e desolati circondari.


Per tacere dell’altro

I

Mi sbagliavo. Alla lesione del tempo non si rimedia col baratto,
anzi, non si rimedia affatto. Dei nostri occhi ricambiati
non rimane che il cascame e se così non fosse, se dal vantaggio
non si potesse distogliere lo sguardo, finiremmo entrambi
nell’abbaglio del reciproco consenso. C’è che adesso
non si prova più appetito e niente o quasi ci sostiene. Ci si perde.

VIII

Guardi i tuoi piedi sporchi, ti sembrano le cose più sperdute
al mondo. La stanza, ristretta su se stessa: un crepaccio
nel quale strisciare, come una lumaca. Poso la mia mano
sulla tua spalla, ritraendola in fretta. Là fuori le case s’alzano
e crollano e tu indossi ancora le tue mutande macchiate.
Una caviglia la conti sempre due volte, prima di scomparire.

Rudimenti umani

I

Non fu che una notte da una finestra trafugata.
Alla luce di una candela, due brunette leggevano Cioran
sul sagrato di una chiesa, una di loro aveva il volto
ustionato. Non mi manca l’aria, non mi è mai mancata.
Ed è così che alitando sul vetro, come in un autoritratto,
concedo agli occhi di sbattere le palpebre, mentre
i passi della sera prima riecheggiano ancora per la stanza
del tavolo con il posacenere. Di tutte le parti interne
ed esibite, non è il cuore la più implacabile, ma le gengive.

Allo stato delle cose

I

Da quando ho ucciso quel bambino ho ripreso a masticarmi
la lingua. Un quarto di secolo fa tua madre era giovane
e bella, come si usa dire. Ora sfoglia vecchie foto di parenti,
ma le brillano ancora gli occhi quando in giardino
sbocciano i fiori del glicine. È così che si dovrebbe guardare
alle cose, al giorno seguente come a quello passato,
infatti, nella casa con l’abbaino. Eppure hai ucciso. Per anni
gli oggetti, fedeli alla forma in cui li hai lasciati, ti hanno
fatto da sponda, talora immobili, ma nel chiarore della prima
camera, sul facsimile del capo, si abbatte lesta la serranda,
come una ghigliottina. Alzo lo sguardo al sole, nella
casa con l’abbaino, e mi si appanna la vista prima di starnutire.

Qualcosa deve morire

V

Molti anni passati in un baleno. La linea chirurgica della gravità
ripercorre la parabola del gomito, confluendo a posteriori.
Un nuovo quartiere residenziale, l’azione della moquette sul
pavimento, un oceano, un aborto e poi il divorzio.
La corsa del tempo esige un singolo eravamo, ma ti ricordi
quell’acquario, nell’appartamento condiviso, e il pesce tropicale
che boccheggia. «Non era che allora», continui a ribadire, mentre
scorgi quella donna che ti aspetta, tra la folla e il monumento,
perché è successo che il telefono ha squillato e vi siete detti «ciao»
o forse solo «non è il caso». Inutile pensarci. Ti ripeti che
la polvere non lubrifica le cose, piuttosto le prosciuga, che la luce
tende ad indurire se pressata, ma quello che nel buio sembra
un volto, non può che essere un oggetto e vi arrendete all’evidenza.
Sospeso resta il tempo, in quell’attimo metallico. Un tornello
che gira, sfregiandosi di dosso il frastuono caldo della metro rossa.

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