Site icon Inverso – Giornale di poesia

«La poesia a palmo aperto» | Vivian Lamarque dialoga con Gloria Riggio

a cura di Gloria Riggio
da Lungo l’Adige – Podcast di poesia trentina


Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.
Alla loro destra/sinistra c’era una finestra, alla loro sinistra/destra c’era una porta.
Non c’erano specchi, eppure in quella stanza, profondamente, ci si specchiava.

                            (Il signore di fronte, Il signore degli spaventati, Forte dei Marmi, Pegaso, 1992)     

Già Vittorio Sereni, in una delle sue rare recensioni, si espresse sulla poesia di Vivian Lamarque definendola una voce che culla, in cui «i versi in chiusura di una cantilena quanto mai puerile arrivano imprevisti come una coltellata». “Il signore di fronte” è la prima poesia cui pensai quando lessi questo commento: i versi finali davvero arrivano in chiusura imprevisti come una coltellata, ed è splendere di una bellezza feroce e ineludibile. Forse è anche per via dell’immediatezza che questo processo concede di cogliere procedendo per impressioni, che qualcuno ha posto la produzione dell’autrice tra la poesia considerata “facile”, quella orizzontale, aperta, quella – e sorriderne – che non prevede la presenza delle note a piè di pagina. Tale filone accoglierebbe la poesia di alcuni altri autori di straordinaria intelligenza del cuore: Umberto Saba, Sandro Penna, Patrizia Cavalli. Del resto, già disse Italo Calvino, sulla difficile facilità. Eppure, ho ragione di pensare che più di non prevedere le note esegetiche, tale poesia si astenga dal contemplarle per via dell’indicibilità di ciò che sovente, di folgorante, essa comunica. In questa conversazione – convergente nella quarta puntata del progetto “Lungo l’Adige – La poesia trentina in podcast” discuterò con Lamarque proprio di questo: di versi o attorno ad essi, di poesia e delle sue retrovie ed officine, dei suoi linguaggi facili o no, quotidiano o meno, della vita che la precede e su cui si cuce. La stessa autrice facendo cenno a questo legame nel corso di un’intervista tempo fa diceva: «la poesia cammina su un filo; ogni poeta possiede un suo rischio di caduta», forse per questo molti altri poeti hanno punteggiato la nostra conversazione, comparendo spontaneamente e spontaneamente accomodandosi fra le parole, sin dalla prima domanda.



G.R.    Giovanni Giudici, raccontando gli inciampi del sé giovane poeta, rivela una tendenza – sostiene, tipica dei principianti – alla messa al bando di ogni “impoetico quotidiano”, scrive: «‘rose’, sì ma forse non i ‘cappucci’ o le ‘cipolle’ che pure occhieggiavano dai versi del tanto amato Saba». Penso ad alcuni dei componimenti presenti in Madre d’inverno (Milano, Mondadori, 2016) dove addirittura i nomi dei farmaci (Algasiv, Poesie ospedaliere) compenetrano la struttura poetica, concedendo esiti stilistici e di contenuto folgoranti. Quindi è quasi più difficile, diremmo rovesciando forse un’antica credenza, una poesia priva dell’affidamento al “genericamente poetico” che gode di un’aura di déjà dit, e dove l’impoetico quotidiano trovi posto. Sono davvero le parole quotidiane – cipolle, e cappucci – le più difficili da usare? In questo, un primo tratto della difficile facilità di cui tratta Calvino?

V.L.     Di parole domestiche, persino casalinghe, c’è sempre stato un gran via-vai nelle mie poesie. Bussano, si presentano, anzi nemmeno, entrano direttamente e si accomodano con naturalezza tra un mio verso e l’altro. Già in Teresino, più di mezzo secolo fa, incontravi una minestra “da mescolare mezz’ora se no attacca” e nei successivi una fila di condòmini, di millesimi condominiali ecc. sino a giungere a Madre d’inverno, alla sezione ospedaliera con l’Algasiv che lei cita e anche il rosa della flebo, l’oro dell’urina, e i soliti tre oxivent, lanoxin e tachidol.

G.R.    Un’altra caratteristica legata alla “poesia facile” è un uso spontaneo, spregiudicato, felice e consapevole della rima: esso accomuna la sua produzione a quella di Umberto Saba e di Giorgio Caproni, insieme al ricorso della dedica alla madre: è la madre di gioia de Il piccolo Berto (1926), è Annina Picchi ne Il seme del piangere (1959), sono le madri che originano e accompagnano la sua poetica, da Teresino (1981) al più recente Madre d’inverno. La rima è l’esito di una ricerca, di una scelta – così come nella quasi dichiarazione d’intenti dei versi caproniani – o risolve la cantabilità della strofa da sé, giungendo spontanea?

«Amai trite parole che non uno/ osava. M’incantò la rima fiore amore/ la più antica difficile del mondo.» (Amai, Mediterranee, 1946) o ancora «Per lei voglio rime chiare, usuali: in -are.// Rime magari vietate,/ ma aperte: ventilate» (Versi Livornesi, Il seme del piangere, 1959) e infine

«[…] abbastanza dolce, non dico squisita/ l’ultima sorpresa bella per te/ dalla vita.» (Anguria, Poesie ospedaliere, Madre d’inverno, 2016).

V.L.     Certo gli amati Saba e Caproni, certo Anna Picchi (anche la mia mamma aveva avuto una mamma che si chiamava Picchi, la falciò la Spagnola, aveva 26 anni e i suoi tre figli erano bambinetti). Le rime non le ricerco, non le inseguo, sono loro a inseguire me. Devo sempre respingerne qualcuna (anche quando scrivo in prosa per il Corriere della Sera). Delle rime baciate a volte penso possano essere controsguardi tra madre e neonato: lei guarda lui e lui guarda lei, senza interruzioni, senza fine, rimandando il momento di andare a capo.

G.R.    Nedda Falzolgher, autrice trentina di rara sensibilità e padronanza di tratto, dedica molto della sua scrittura alla figura della madre: è anche attraverso il corpo materno che la poetessa – costretta sin da bimba alla paralisi – ricerca una congiunzione alla vita sensibile. Questo uno dei temi della lirica “Le parole dei figli”, dove ancora si attua quel processo che discosta i versi dalla radice autobiografica da cui si originano, raccogliendo in una sola gugliata le parole di tutti i figli:

«Fammi ponte alla vita/col tuo vivido corpo d’amore,/ madre che sei l’isola in fiore/ dove il mio tempo è fermo tra due mari.// Tu che avevi sapore di rose/ nella carne ferita, lascia che io cammini e non ti veda.// E prega per la mia nuda fame/ se il tuo cuore fosse pane/ dal petto ancora te lo coglierei/ per i giorni miei desiderosi.»  (Falzolgher, N., Fin dove il polline cade, Roma, Ubaldini Editore, 1949).

Consonanze tematiche, oltre che vissute su uno sfondo – il Trentino – forse in parte comune. Si è detta molto legata a questo luogo: ha esso un ruolo nei suoi versi, o viceversa, i versi la legano a questo luogo? 

V.L.      Nedda Falzholger, vita tormentata sollevata dal volo della poesia. Nata e deceduta a Trento, così come il mio padre naturale, anche a lui Trento dedicò una delle sue piazze. Io sono invece nata a Tesero il 19.4.1946 (se con l’età dimenticherò giorno e mese natali, sarà facile rimediare, sono compresi nell’anno). Ho vissuto i primi nove mesi della mia vita a Cavalese (di questi nove, uno in villeggiatura a Varena). Non riconosciuta alla nascita dal padre, a nove mesi fui adottata da una famiglia che viveva a Milano. Era “appena appena finito Natale”, “zitta guardava attorno / il nuovo Presepe / la nuova mamma”. Il Trentino si affaccia a volte nei miei versi e nelle mie fiabe, quasi sempre bianco di neve, così vivrà per sempre nel mio immaginario.

G.R.    Giovanni Raboni, primo suo lettore, nel ‘72 scrive su “Paragone Letteratura”: «di assolutamente suo, e abbastanza raro, la Lamarque ha questa grazia, questa ingenuità di scrivere poesie come se si trattasse di un gesto che non ha nulla a che fare con la letteratura.» Scrivere poesie come un gesto quotidiano e naturale, disinteressato e inevitabile: stropicciare gli occhi al mattino, scoppiare a ridere, commuoversi. Pare abbiate intessuto nel corso del tempo e in seno ai versi una profonda amicizia e questo forse ha concesso di risuonare l’uno nei versi dell’altro. C’è una poesia di Raboni scritta in occasione della morte della madre e dal titolo “Amen” (Cadenza d’inganno, Mondadori, Milano, 1975) che recita:

Quando sei morta stavamo / in una casa vecchia. L’ascensore non c’era. C’era spazio / da vendere per pianerottoli e scale. / Dunque non t’è toccato di passare / di spalla in spalla per angoli e fessure, / d’essere calcolata a spanne, raddrizzata / nel senso degli stipiti. Sparire / era più lento e facile quando tu sei sparita. / Parecchie volte, dopo, mi è sembrata / una bella fortuna. / Eppure, se ci pensi, in poche cose / c’è meno dignità / che nella morte, / meno bellezza. Scendi a pianterreno / come ti pare, porta o tubo, infilati / dove capita, scatola di scarpe / o cassa d’imballaggio, orizzontale / o verticale, sola o in compagnia, / liberaci dall’estetica e così sia.

C’è poi una sua poesia, dal titolo “Condomìno” che recita «È tornato morto stasera/ dall’ospedale, gli hanno salito/ le scale, gli hanno aperto la porta/ anche senza suonare, ha usato/ per l’ultima volta il verbo entrare.» (Una quieta polvere, Mondadori, 1996). In alcune immagini possiede un’eco la lirica “Amen” (Raboni, G.,)? L’amicizia col poeta ha sottointeso una ispirazione, oltre che un’ammirazione reciproca? Raboni del resto, a sua volta, possiede una grazia brutale e incantevole: «Dopo la vita cosa? ma altra vita, / si capisce, insperata, fioca, uguale, / tremito che non s’arresta, ferita/ che non si chiude eppure non fa male» (Quare tristis, Mondadori, Milano, 1998).

V.L.     Ha intuito bene. È appena uscito “I padri della parola” in cui Tiziano Broggiato chiede a 17 poeti quali siano stati i loro maestri e quali i rapporti con loro e io cito molto proprio Giovanni Raboni.

G.R.    Con Raboni abbiamo accennato ad una poesia che fa esperienza del dolore. Lo stesso autore notò nei suoi componimenti una veste espressiva solo apparentemente leggera, e ne sottolineò una semplicità quasi feroce. Nella sua poetica l’elemento lieve e quello grave si incontrano, e incontrandosi ridefiniscono a vicenda i rispettivi termini, i significanti del primo si fanno portatori dei significati del secondo e viceversa. Sopra ogni cosa lo testimonia il modo in cui nelle sue poesie è presente e viene raccontato l’amore: penso ad un componimento di Edna St. Vincent Millay:

«[…] L’Amore a mano aperta, questo solo,/ senza diademi, chiaro, inoffensivo:/ come se ti portassi in un cappello// primule smosse, o mele nella gonna,/e ti chiamassi al modo dei bambini:/- Guarda che cos’ho qui! – Tutto per te –

Nei versi di Poesie dando del Lei (Milano, Garzanti, 1989) c’è davvero la narrazione di un amore offerto a palmo aperto, di una semplicità quasi feroce: «In dote Le porto/ foglioline di salvia/ e di rosmarino/ più mille poesie circa/ più quello stralunato ritrattino/ tutto qui? /no anche un fiore con dentro/ un’ape in velo da sposa/ più una goccia di miele/ più una spina di rosa/ tutto qui?/ no anche il resto del mondo/ più un cielo gentile/ più i colori che vuole/ più il doppio della metà/ di tutto il mio cuore

Il registro infantile di questo atteggiamento poetico riserva imprevedibili passaggi dal riso al pianto, un darsi privo di timori legati all’esubero, un bene che si legittima su sé stesso, e felicemente si presenta all’altro: è la via per ogni autenticità dacché il bambino, per eccellenza, conosce ed esperisce la gioia e la sofferenza nudamente. Vorrei dire, è nella sua poesia, forse, la profonda verità dei versi di Louise Elisabeth Glück: «Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. // Il resto è memoria.» (Louise Glück, Meadowlands, Harper Collins, New York 1996)?

V.L.     Le sue osservazioni sono come frecce degli indiani, colgono nel segno. Come, mi dicono, succeda alle mie poesie, raggiungono con immediatezza il lettore, a volte persino lo feriscono… Invece, come noterà dalle mie risposte, non posseggo il dono del commentarle, menomale che lo fa lei per me!  Con la Millay sento alcune affinità, ma quando l’anno scorso per la prima volta lessi quei due versi della Glück, l’avrei abbracciata.

G.R.    Lei è un’autrice molto affermata di letteratura, così detta, per l’infanzia: la predilezione per un approccio ad una narrazione che filastroccheggi e che ponga il mondo alla rovescia attraverso la domanda paradigmatica «cosa succederebbe se» dischiude le porte alle deduzioni immaginative e apre la strada ad un’ipotesi fantastica che raramente si esaurisce nell’usus infantis. Rodari sostiene che tale grammatica alternativa di trasformazione di questo in quello è lo strumento per «entrare nella realtà dalla finestra anziché dalla porta», e che a quella finestra possiamo e dobbiamo accedere poi a qualunque età. Essa, diremmo con Sanguineti, è più utile perché è più divertente, è il primo passo che si compie per modificare il mondo, rompendo l’immagine di un esistente cristallizzato da una razionalizzazione non problematica. In ogni mondo alla rovescia è deposta, tra l’ignara e l’astuta, la tendenza ad uno sviluppo onnilaterale dell’individuo ch’era il sogno pedagogico di Rodari e che è magistralmente contenuta nel suo, uno fra tutti, “Storielle al contrario” (San Dorligo della Valle, Einaudi Ragazzi, 2013). Mi sembra, insomma, che i poeti e i bambini si facciano l’occhiolino a vicenda: mentre i ‘grandi’ considerano la poesia per l’infanzia lieve e innocua, essa pone le basi per un mondo pieno di felici disertori dell’ordine costituito, dove nulla è da accettare per tradizione, pigrizia o dogma. Felici punti di domanda compiono un gioco dialettico vivido e sovversivo, creano un legame sotterraneo attraverso un (sor)riso che condivide una comune idea di mondo. Ci racconti il suo legame con questo genere di scrittura e come se cambia la sua penna, al variare del lettore.

V.L.     Sono felice che tra i miei titoli per l’infanzia abbia scelto Storielle al contrario (che è la prosecuzione di Mettete subito in disordine). Un tentativo di capovolgere il mondo, già a partire dai nomi.  Mi è caro anche – per quanto mi ha rivelato di me stessa – La bambina che mangiava i lupi, tra le mie primissime fiabe, ristampata qualche anno fa. Ho iniziato a scrivere poesie (o meglio ho sentito l’urgenza di scrivere poesie) a dieci anni, quando scoprii di avere due madri, invece per le fiabe l’urgenza ha bussato quando ero già mamma di Miryam, in un momento molto difficile per la nostra famigliola di padre-madre-figliolina, la separazione. Scrissi allora anche 365 ninne-nanne anche se Miryam aveva già sette anni, erano giorni bui e le ninne-nanne – come scrisse Lorca che ne raccolse di antiche della tradizione – cullano non solo il bambino ma anche la mamma. In quegli anni scrissi anche La bambina senza nome e molte altre, spinta dalla stessa urgenza. Quando nel 2000 diventai nonna di Micol e nel 2003 di Davide bussarono storie diverse, e in seguito le Storielle al contrario che lei cita.

G.R.    «Dell’intelligenza del cuore / vi importa poco o nulla. / Io vi sono marziana». Quando anni fa conobbi le sue poesie, leggevo contemporaneamente per la prima volta “Versi del senso perso”, di Toti Scialoja (Torino, Einaudi 2009). Forse per i condizionamenti del condurre due letture in un periodo comune o forse per via del fatto che esistono, al di là delle suggestioni soggettive, delle consonanze, mi è sembrato venga compiuto da entrambi un accesso simile alla poesia: con occhi sognanti, astuti e bambini. Una predilezione per le rime tintinnanti e stupite, un riferimento all’età dell’infanzia – laddove, paradossalmente non si ha accesso alla parola essa diventa capriola lessicale e concede esplorazioni impavide della realtà – e un’ironia che stratifica di molto il testo rendendolo matrioska di senso accomunerebbero, seppure con esiti molto differenti, le due produzioni. Davvero, la poesia più elementare e cantabile, necessiterebbe le note esegetiche. Ho pensato che, è possibile connetta queste due poetiche – e ci dica se si trova d’accordo – un elemento nella sua, certamente presente: la forza liberatrice del riso nel dolore. L’ironia lepida dei suoi versi non teme la portata di una sofferenza luminosa e nuda. In questo processo risiede ciò che al fondo costituisce la sua poesia e abbiamo citato in apertura: l’intelligenza del cuore. Si sente, ancora oggi, al mondo, marziana?

V.L.     A quasi ottant’anni (arrotondo un po’ – in realtà sono nata nel ’46 – lo faccio per esercitarmi e per sentirmi dire come li porta bene, invece mi chiedono in che mese?) dunque a quasi 80 anni posso dire di sentirmi sì ancora marziana, ma di certi, non di tutti. Nel corso degli anni ho per fortuna incontrato anche altri extraterrestri come me. Ora la mia grande paura è che passo dopo passo l’homo sapiens colonizzi lo spazio celeste e lo popoli di terrestri. Lo temo molto perché gli extraterrestri li immagino più buoni di noi (Principe Myskin: “ho bisogno di persone buone”).

G.R.    A proposito di marziani, è di recente ricorso il decimo anniversario dell’inserto culturale “La Lettura”. In occasione dei festeggiamenti, tra gli altri, è stato ospite presso la redazione del “Corriere della Sera” il campione mondiale di Poetry Slam Lorenzo Maragoni, con tre poesie. Una di queste dal titolo “Preferisco Lamarque”( ecco l’articolo) si ispira alla sua “Preferisco Szymborska”, (Dedicate, Madre d’inverno, 2016) a sua volta dedicata alla celebre “Possibilità” della poetessa polacca (Gente sul ponte, 1986). Vuole raccontarcene?

V.L.     Fu davvero una grande sorpresa: solo qualche giorno dopo l’evento qualcuno mi raccontò il fatto e contattai Lorenzo Maragoni per ringraziarlo.

G.R.    La sua poesia è cucita tra infanzia e vecchierellità: la prima conosce e accoglie l’altra, omettendo quasi l’idea di una via di mezzo tra le due età. «Con gli anni i miei amici/ sono diventati/ tutti ricamati» (Cicatrici, Madre d’inverno, 2016). Ora si sta dedicando al tema dell’amore da vecchi. Ci racconta com’è?

V.L.     Sto correggendo le bozze di L’amore da vecchia che avevo iniziato nel 2016. Avevo smarrito molte poesie nel pc, grazie al cielo i miei nipoti me le hanno stanate. Com’è l’amore da vecchia? Ogni tanto mi ribatte il cuore, ma mi guardo bene, data la mia età, dal comunicare il battito all’interessato!  Mi festeggio da sola anche i relativi anniversari! Ci sono anche innamoramenti per i regni vegetale e animale, e poesie ferroviarie e poesie cinematografiche e poesie familiari naturalmente. Uscirà dopo l’estate, a me sarebbe piaciuto uscisse per Natale, se non saprete cosa regalare… ricordatevi questo strano titolo. Mi piace molto la parola “vecchia”, il suono del ci/acca, come legna secca, come le nostre ossa che scricchiolano. E mi piace la vecchiaia, che ti lasciano il posto in tram e che i capelli ti diventano color della neve. Come la neve di Tesero e di Cavalese.

Exit mobile version