a cura di Lorenzo Pataro
da Feriti dall’acqua (Pequod, 2022)
Il tuo viso o anche soltanto l’inverno
dei passi, i larici: l’andare oltre
le panche della tua solitudine.
Perché è tanto il tempo dell’insonnia
e nella luce dissolvi i volti amati.
*
Cani a valle, le nubi escoriate
nel freddo di sempre. Puoi ancora
sentire il gheppio che svola scoprendo,
prima e dopo lo sparo,
l’urlo dentro la nebbia,
il tempio del croco e del grano dove
sono disparse le ossa del nonno.
*
Come tradurre l’azzurro arreso del cielo,
quando, con l’odore di terra riarsa, le parole
separano le nubi dalle nubi, gli uccelli
dagli uccelli, le foglie dalle foglie?
*
Padre dentro di me precipitato,
serrato nella pelle delle cose
inabitate: per non smarrirmi, ora
che dietro la schiena
non più resiste
il calco dell’ombra al tuo passo,
le ferite ugualmente distanti,
riconoscimi almeno il tepore
dell’addio, ché a rimanere qui
affamati d’amore non si vive.
*
Raggelate le stanze. Il tuo volto è l’inverno
se, deponendo il fiato, ti sporgi
tra le acque dove separi la morte dalle
madri e dai padri. Poi, lontano, verso
le trame di chi ora nasce.