Spostamenti #13 | Giona nel ventre dell’Universo

a cura di Giovanna Frene
di Daniele Orso
per Sonetti Bianchi (L’Arcolaio, 2022)


SPOSTAMENTI
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole


“Ora quel che mi preme dire è questo: che il solipsismo letterario è qualcosa di completamente diverso da quello filosofico, proprio perché lo scrittore non parla d’altro che della propria esperienza, alla quale viene tanto necessariamente rimandato che può diventare a sua insaputa lo storiografo del proprio tempo. Per questo motivo esprime mimeticamente, imitandola, una condizione generale che, in una certa maniera, lo trascende. Ma non affermerebbe mai che a esistere sia solo il suo io, limitandosi al contrario a dire: «Sono talmente alienato che non posso parlare diversamente da come faccio; e tuttavia sono tenuto a farlo». La speranza che sottintende tutto ciò è quella in fondo di appropriarsi in quanto scrittore di tale punto di vista, e di far sì che questa voce solitaria, che non è altro in realtà che la voce di tutti a se stessa inconscia, giunga in qualche modo a saltare il fossato che la separa dagli altri uomini.” (“Conversazione su Beckett” di Theodor W. Adorno, a cura di Gabriele Frasca, Eusebio Trabucchi, L’Orma editore): questa dichiarazione di Adorno sull’opera di Beckett, può, così come ci è stata riportata, attagliarsi anche all’ultima plaquette di Gabriel Del Sarto: Sonetti bianchi, L’arcolaio, nella collana Φ diretta da Gianluca D’Andrea. Si tratta di un prosimetro suddiviso in tre sezioni. Ogni sezione comincia con una breve introduzione in prosa che racconta alcune vicende personali ma del cui risvolto esistenziale tanto profondamente si fanno carico, da poter essere sussunte senza mediazione a una condivisione completa da parte del lettore. Nel panorma letterario attuale in cui la disputa sui diritti dell’io e sulla legittimità di riferire i testi al privato dell’autore tiene il banco della critica, quest’opera viene a creare uno strappo della trama. Se da Proust in poi è possibile suddividere la critica in saint-beuveristi e proustiani, tra coloro che ritengono inscindibile il sostrato autoriale che sta alle fondamenta dell’opera e chi, invece, ritiene trascurabile, anzi pre-(for-)cluso ogni riferimento alle vicende biografiche della persona che firma la copertina (con il succedersi delle esegesi critiche alle opere di autofiction dei primi anni ’10 del secolo), le opere come quella di Del Sarto contribuiscono al dibattito aprendo una prospettiva netta: chi dice io nel testo è innegabilmente l’autore che si fa testimone e garante dei fatti occorsi e raccontati. Ma che poi tutto questo sia, in fondo, prescindibile è altrettanto vero: se anche gli avvenimenti testimoniati fossero fittizi, cosa muterebbe della capacità dell’opera di offrire una possibilità di immedesimazione da parte del lettore? Quanto della verità esistenziale che trasmette verrebbe meno se l’opera fosse prodotto di totale finzione? Nondimeno, nel dibattito menzionato, la problematica dell’io è intrecciata alla teoria politica che sottende alcune poetiche contemporanee: con che diritto l’autore si arroga il privilegio della prima persona? Per quale investitura l’autore può prendere parola dal suo angolo di mondo sussumendo l’intero mondo alle sue spalle? Tuttavia, la prospettiva dell’io è anche quella di una piccola cellula di resistenza nel mondo tecnologizzato e disumanizzato alla prospettiva economicistica del neo- o post-capitalismo globale. Forse dire io, senza necessariamente rivendicare la preminenza della visione occidentale, dell’autore benestante bianco e padrone del vapore, del bagaglio culturale della Storia, può offrire un piccolo appiglio a chi su quella piccola voce abbia la forza di far leva per assommare un coro di prospettive, di triangolazioni con altre voci e altri io che, miracolosamente, nella parcellizzazione esperienzale odierna, ogni tanto, possano entrare in risonanza. Non si tratta di fingere che esista ancora quel qualcosa un tempo definito “individuo”, ma di non arrendersi all’adozione del linguaggio dell’alienazione. Scrive, programmaticamente e molto consapevolmente Del Sarto in una delle sezioni in prosa: “Celan chiama cammini i legami e ne propone una classificazione utile. C’è il cammino che porta verso l’Altro, quello del sé verso sé, che implica il marchio del trauma, e il cammino della lingua verso se stessa, che solo la voce può tracciare. L’opera è quindi questo sforzo: tenere insieme l’Altro, sé stessi, infine la lingua, col filo della ferita. Come fosse questo il fine cui tendiamo. Un corpo a corpo di cui, però, si fa fatica a vedere la meta finale.”
La plaquette si sviluppa simmetricamente e a ogni incipit in prosa segue una corona di sonetti (da cui, appunto, il titolo) sviluppati in un’unica gettata (di caproniana memoria) che rimandano in maniera diretta ma articolata al tema presentato dalla prosa in apertura. Nove sonetti alla prima e alla terza e ultima sezione, tre alla più breve e intermedia seconda sezione. Predomina l’endecasillabo dalla cui misura però ci si stacca piuttosto frequentemente, a seconda delle esigenze argomentative del discorso, con enjambement per così dire “funzionali” (“una massiccia sottrazione di ornamenti, negli anni del glamour e del design” recita in epigrafe al libro una citazione di G. Simonetti) alla sintassi franta ma, tutto sommato, lineare: “Le vetrate spesse che ci separano/ dal mondo desiderato, significano/ solo se stesse, bianco epos glassato,/ candito per le domeniche di soli-/ tudine ripetuta, nel servizio/ dovuto a noi stessi.” Qui predomina un tono ragionativo, speculativo ad altissima temperatura. Un basso concreto di vicende esistenziali sempre sul punto di rottura, di un salto nel campo della metafisica. Le figure ricorrenti degli angeli (“Gli angeli sono anche carezze/ di un padre sconosciuto”), riportano ai toni del Rilke delle Elegie duinesi (“se tutto inizia questo/ sorriso prematuro, quale grido/ negli orli sentirò del cosmo?”) o dei sonetti a Orfeo. Storia ed eternità, minute vicende quotidiane e prospettive cosmiche si alternano in un rapporto dialettico non pacificato. L’eredità del Luzi del Magma da cui non è lontano un certo Fortini escatologico, evoca la necessità di fede nell’uomo, in ciò che nell’uomo è sacro: “C’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano. Il bene è l’unica fonte del sacro” (“La persona e il sacro” di Simone Weil, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi).
La perizia tecnica è pervasiva ma discreta: “Tutto quello che rimane negli anni/ delle vecchie linee di un codice/ scritte altrove, pensate da un altro/ per altri scopi, nutre piattaforme/ che lanciano anche stamani il solito/ enorme e splendido attacco algoritmico”. Assonanze, consonanze, alliterazioni scivolano tra i versi con discrezione, in un versificare calibrato e controllatissimo ma, alla lettura, facile, leggero, musicale senza essere percussivo: “segno dissolventesi/ di un cuore realista – appare morto/ se ti tengo in braccio, se ti porto/ con me, sulla sponda opposta del fiume”.
Tutto in quest’opera è concretissimo eppure rimandato alla prospettiva alta di una metafisica esistenzialistica: il ragionamento attorno al senso di ciò che siamo, delle configurazioni assunte dalla società attuale alla luce di una apertura, una chiarificazione oltremondana. L’interlocuzione con il figlio Giona, “figlio sempreverde”, origine e destinatario di un dialogo, che “importuna e sorride”, come una ininterrotta “preghiera del limite” che continua a interrogarsi sulla presenza e sul divenire, una visione cosmica (“dovremmo ogni/ giorno pensare alle galassie, ai gas/ fra le rocce, l’unione delle coppie/ dentro la malinconia dei gameti”) in cui soltanto può trovare spazio l’uomo, abitatore di questo piccolo mondo devastato da guerre, epidemie e carestie, che continua a domandare ragione della malattia, della vecchiaia e della morte o di una piccola anomalia cromosomica, di ciò che è e che determina la sua sacralità indipendentemente dalla sua funzionalità. Del Sarto scrive un’opera di trascendente meditazione sulla genitorialità, sull’eredità/ereditarietà che, alle fondamenta, si intreccia al ragionamento attorno al senso della scrittura: “La letteratura/ è solo una personale ricerca/ dello sguardo con cui guardarvi, figli,/ della luce lunga pensata sulla/ pietra della casa, l’evocazione/ infine di me stesso, convocato/ nel disagio di essere vivo – e voi/ sui crinali, che siete questa età”.


SPOSTAMENTI
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole

Questa rubrica di poesie, Spostamenti, nasce dalla necessità prima di tutto di dare voce al testo poetico mediante un commento, inteso questo come pratica di lettura e rilettura lenta, necessarie per cogliere quei meccanismi del testo che spesso la lettura veloce che il web suggerisce occulta. Per certi versi, la pratica del commento tanto somiglia a quella che, nell’ornatus, è la caratteristica dei tropi: si tratta di compiere uno spostamento, una sostituzione, un cambiamento di direzione che investe un elemento originario, e che nel nuovo elemento che sorge altrove rivive in una veste traslata. La pratica del commento, infine, richiede un servizio umile e gratuito al testo poetico.

La rubrica avrà inoltre uno spazio dedicato alle “parole sulle poesie”, ossia alla recensione e/o segnalazione di libri di poesia, ma anche a testi che verranno ritenuti utili per quel che concerne la dimensione del fare poetico. In quanto a ciò che viene designato con “parole sulle parole”, si intende dare spazio all’ambito saggistico, ma anche a interventi di poetica e a interviste, con apertura a tutti coloro che desiderino dare il loro contributo.

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