Deidda, Palomba, Vetere | Sciami #3

di Giorgia Deidda, Ilaria Palomba, Emilia Vetere
la fotografia di Ilaria Palomba è stata scattata da Dino Ignani; quella di Emilia Vetere da Giulio Irving


Il metallo di un binario
gelido mi brucia
sulla pelle; non ho niente
che mi sia rimasto in mano.
Come sempre si riduce
tutto alle macerie,
“guarda cos’hai fatto”;
anche stavolta scorticando
fino all’osso.

E dire che avrei dato
fino alla mia stessa vita;
cocci rotti avvolti nell’ortica.

Per farti svegliare vista mare
ancora e per sempre;
pensando che le mie spalle
potessero caricare
il peso del mondo, quando nemmeno
so camminare sola.
Rimane solo il rumore
dei passi nel niente;
rimane il treno sbagliato;
il voltarsi per trovarti
trascinato via dalla corrente.

Nella lontananza dell’idrogeno
il cloro si annoia. Tu con me
aderendo fino alla fine, foglia,
non ti annoi, se l’albero si

scuote e ti strappa via. Io
foglia non mi arrendo se
tu vita mi strappi via. Io,
nella lontananza di questo

reparto, dopo aver gettato
la spugna, risalgo alla vita
stessa. Che sia il barbaglio
di questo sole, sradicamento,

il suicidio non conosce
retrovie, non ho visto il
mio corpo cadere ma
ho sentito cantare un

coro soave. Dove sei,
amica mia? Dove siete,
sorelle? Io vi chiamo
dal letto diciotto, della

stanza numero quattro
dell’unità spinale. Venite,
nel giardino, dove possiamo
camminare, zoppicando.

Era l’alta marea in me
a gettare scompiglio,
era l’altra, colei che
non voglio, e non sono.

Ognuno nel fondo è
un altro. Riprendere
il timone, ancorare la
nave. Dentro un tormento

cui non sono pronta,
l’alta marea è vicina
e forte è la buriana.
Ancorate la nave!

La croce che puntella i fianchi morbidi,
è segno di lotta cruda e sanguinolenta –
non si vive due volte allo stesso modo,
perché le molecole si scompongono,
quando le stelle s’accorgono che al cielo manca loro qualcosa.
E il firmamento cada a frotte sulla terra,
ti spia dalla finestra sbarrata mentre dormi,
e il sonno ripara e cuce le ferite che bruciano come sale.
È l’aprire gli occhi, in un maggio mite,
che ha raddrizzato il cielo,
e tu hai saputo disarticolare con ferocia,
la bile che s’appesantiva per la crudele faccia demoniaca che t’andava a perseguire giorno e notte.
Hai strappato con veemenza il punteruolo,
il carteggio che falsava l’amore rendendolo preda sfacciata per volpi nemmeno tanto furbe.
E quando hai toccato la tua carne, lentamente,
sei ridiventata magnolia, dal profumo e bellezza inebrianti.
Nel tuo viso stropicciato, dalla calura del distendersi e non poter sfiammare la nevralgia di quando siedi,
hai ricreato una poesia che ha i semi nella potenza che credevi d’aver perduto.
Tutto ciò che ti ha fatto mollare è ritornato indietro con l’elastico e ti ha reso ciò che non vedevi più, perché invisibile per le tue fattezze.
Adesso che il viaggio è finito,
ricomincia la vita come bocciolo; una nuova credente che ha toccato con mano l’aldilà
ed è stata cacciata perché non vivente di fuochi e demoni,
nessun volo come Margherita.
Una nuova credente che appartiene al mondo e alla vita come sua ferocia ed arma destra.
Una nuova credente bollata da chissà quale padrone dei cieli, come prevaricatrice del male,
abile maestra di versi.
E schiaccerai la testa della vipera che ha cercato di consumarti, come una candela,
con il suo inutile, vuoto veleno.
Adesso sei vestita e trionfante,
non più l’Eva nuda che scappava.
Adesso il mondo sei tu,
e i tuoi occhi vinceranno la morte.

Rispondi