Parole Contro | Zahira Ziello

Proponiamo ai lettori il testo presentato da Zahira Ziello ai laboratori di Parole Contro, tenuti a Napoli tra novembre 2022 e febbraio 2023.


Guerra

L’assenza è un morbo corpulento e fiero,
stringe e giace, vorticoso e flebile
Fugge dal corpo che lo ha abitato
e si fa nuova sostanza,
nuova mancanza e desiderio.
Non torna e, smarrita la casa, 
si ritrova in mura strette di solitudine,
strette a ricordare che l’assenza è fuggita.
Chi riversò veleno in città? Di chi paghiamo la colpa? Una mandria di colpevoli qui tira l’aratro senza aver mai cibato del pascolo. C’era un telo a coprire i fumi? O c’è un muro a coprire lui?
La colpa fu aver cercato amore nel pronunciare quel rapido vagito, sfugge però, all’articolata e ottusa coscienza umana che il neonato non possiede l’archetipo del bene, è mosso dalla smania di vita. Disarticolato e paffuto agita i suoi arti in miniatura perché gli sia concessa un’asola di mondo spaziosa, accogliente e rigogliosa che gli permetta di svilupparsi secondo la propria volontà con il preciso intento di sovrastare il sé, il te e il resto. Tutto quel che è possibile calpestare sarà soppresso e cosparso di sale per affermarsi forte, potente, capace di rinnovarsi non nel fluire incessante del mondo ma nell’orda mortuaria che lo ha popolato. Che il sostentamento della terra è nelle ossa dell’uomo. Non è l’uomo a cibarsi dei frutti della terra, ma la terra ad alimentare l’ecosistema dal midollo. L’uomo nel tentativo di sovvertire la sua natura di selvaggina, ha dato alla terra veleno, per controllarla e sopravviverle.
Immaginate una prole degli uomini obbediente come la prole dei ragni, devota a una legge ignota che comanda l’infestazione. E zampe e zampette di piccolissimi aracnidi che sgattaiolano tra gli anfratti sotto il battiscopa rasenti il muro, evitando qualsiasi colpo fortuito perché nati per ripetere quel che nell’uovo hanno imparato. La lezione è moltiplicata in ogni occhio, uguale e scattante. Ma agli uomini troppe lezioni furono lasciate, così e si ripete Prometeo e si ripete Annibale. In uno scontro perpetuo che vedrà cadere di volta in volta la riproduzione dell’esempio.
Quando l’aria degli alberi fu finita
gli animali della terra, del mare e della guerra
si trovarono una stanza infossata e inabitata
“Siamo un solo spirito” – disse il soffio
“Siamo un solo ritmo” – disse il battito
“Siamo un solo nodo” – disse il cappio.
Una sola stanza non bastò a contenere il tumulto rimasto,
lo scarto ammassato volle da subito definirsi distante,
i corpi s’allontanarono, s’infrattarono fino al costituirsi dei limiti.
Alloggiati in stanzette con serrature senza mandate, senza guardiani,
non insegnavano lo spavento dell’agguato ai teneri piccoli,
s’aspettava che l’ispezione cogliesse gli infatuati ansanti e indaffarati,
nulla si sa, nulla s’impartisce, la lezione è “Ci si nasconde”.
Ci si frantumerebbe in briciole per nascondersi meglio
“Io non so di te. Tu non sai di me”
Sussurravano i corridoi
S’impara velocemente, sì, ma tu, lettore caro, sai competere con la trasparenza?
Tu che hai un corpo che sarebbe intero anche senza pelle,
che potresti vedere anche senza muscoli,
con cui potresti ballare anche col solo pulsare delle vene,
le cui ossa resistono al secolare mangiare della terra,
competi tu, essere integro, con l’assuefazione.
Rifletti, carcassa pesante, e cammina fino all’ingresso della fossa,
Li vedi? Si coprono di nero con un manto, intanto che aspettano la sorte,
dal muso alle zampe appannaggio di una sola nuvola priva di pensiero,
paiono covare essi stessi la propria attesa, come non volessero mollare la presa
di quella corda umida su cui siedono. I piedi penzolano lenti
su un ampio spiazzale che ha colore e consistenza di polvere,
il cui solco nel centro risuona come la cassa di uno strumento
monocorde. Sul filo erano in troppi, delle volte,
qualcuno cadeva, avrebbero dovuto legare altre corde,
ma il Bugiardo chiedeva il progresso, e questo s’identifica con lo spreco
che riempie le sue dita di gemme di plastica,
che permette ai suoi denti di cariarsi,
che leva ai pesci le alghe incontaminate,
che occlude anche ai sassi le radici.
Egli aspira ad un assoluto convesso che lo copra come in una bolla,
che lo sleghi dalle contingenze, un cielo di plexiglas, insomma,
per avvicinarsi alle forme mutate in velocità,
per avviarsi all’ordine del cerebrale,
alle liturgie del sé contenitore di statica sacralità.
Allora giù, dov’è freddo, strisciando per canne robuste dai suoni delicati,
per finire lontano dalla casa, ormai abitata.
La casa del sospetto ha stanze di colpa e di punizione:
come fossero chiavi della cintola di dio
gli inquilini scuciono la toppa per disporsi gelosi
ad origliare gelide presunzioni di fede
“Si discute di un temuto mercoledì delle ceneri”
“Ma mai arriva”
Intanto accumulano grasso e menzogne da disporre sotto i tappeti
perché l’assordante passo di dio non li colga dormienti
seppure non vissero che accumulando riserve e mai grazie,
riserve di chiassoso peccato, che li consolassero
dal bianco divino che appanna lo sguardo, ma non placa la voglia
di esser rovesciati ancora, e sporcati ancora.
Il bianco non sazia, il bianco lascia che il languore frema,
che il piacere aumenti finché
la porta si spalanchi
e dal grigio del lungo corridoio il pallore ansante invada gli anfratti
dov’è nascosto il marcio. Le sentinelle s’impuntano dritte
coi talloni sui bordi dei tappeti, perché a sbucare non sia la loro colpa
ma quella di chi, imperfetto truffatore, non ha saputo esser svelto.
E che scoppi la rivolta, che un capro deve sempre essere sacrificato,
che i virtuosi predicano ma disdegnano le suppliche,
quindi che il matto sia gettato giù
dal dirupo, come gli antichi
dalla forca, come le streghe
dalla piazza, come i lebbrosi
dall’Eden, come gli uomini.

Le chiavi
credono nella perpetua discendenza della creazione,
ricordano che tra chi fu generato, tu fosti posto nell’angolo del fosso
costretto in un basso putrido, i cui segregati non prestano servigio,
intanto i ciechi penitenti abitano in bilico nella fosca nebbia
che lo sfiatare di dio caccia,
egli appanna il cielo e i ciottoli
da cui gli obbedienti si coprono i piedi e le orecchie
perché i predecessori non li riempiano di graffi
richiamando all’attenzione gli spirti odierni:
Bisogna che ci sia un piccolo insetto,
magari deforme o magari pensante,
qualcuno che raccolga il peccato senza nasconderlo,
qualcuno cui non può essere rimesso il male
perché non cosparse la propria testa di ceneri.
Finì col racimolarsi di un uomo solo,
uno piccolo, dalla voce bassa e dalla testa china,
era spietato il suo dissenso ma inerme la sua pratica,
sicché lo presero senza che strillasse l’ingiustizia del torto,
“Non si urla a un dio bugiardo che mente.
Io gravito impermalente tra le orbite altrui,
mi sottraggo al verso, esattamente come il nero è tale
perché rifiuta in apparenza gli altri colori.
Io non chiesi mai di aprire la serratura,
non si può chiedere una quiete che non si è provata…
ma capitò di spiare, e la delizia fu troppa,
al di là lo squallore si annulla e il declino si spiega.
Io non saprò, so che non saprò, distanziarmi da chi mi tarpa,
per ingordigia, per timore, o per devozione alla sottomissione,
io starò qui perché i cretini possano vedere nel mio sacrificio
il Bugiardo che si nasconde”
Che si sa –annuncia uno squilibrato- il male è male,
va fatto, ma che non si dica, che non si sappia.
La perversione non è degli atti ma della parola
di chi la professa con la lingua linda dallo squallore,
che fu solo di chi, bugiardo, disse no,
che si sa:
chiudono gli occhi nell’aldilà.


Il mondo dell’impotenza subirà uno squarcio
e la plebaglia ormai separata dalle crepe
fuggirà convinta di avere altri mondi da abitare
poiché la primaterra mancava di isole di ristoro.
Il fracasso del tempo condusse l’impotenza a farsi materia
e gli uomini a cedere all’immateriale,
avendo perso gli déi, ma bisognosi di un Padre,
credettero al Nulla che mutato dai sensi
si fece sentimento e presenza stabile
perché gli si dovesse obbedire.
“Al Padre ho rubato l’evanescenza,
l’autorità che nasce dallo spavento della forma,
la sostanza irreale e materiale del sentire più compromesso.
In quel giorno cielo e terra non si allinearono,
scivolarono,
accorsero poi, colpevoli entrambi, ad assolvere ai propri delitti,
incuranti dei bisogni dei mortali
impedirono il susseguirsi delle stagioni,
l’autorità del tempo cessò, e gli uomini ebbero paura,
mossi dal distacco dal razionale,
si chiameranno anime, (illusi che questa fosse la prima tra le volte)
perché la corteccia frontale limita impedendo la comprensione,
arcigna e maldestra,
aggrotta il naso, corruga le ciglia,
confonde istinto e spontaneità.
Fatto un nuovo Dio,
si fecero nuovi cretini,
si susseguirono come lacrime del rosario
il cui umido della prima bagna la seconda
fino al coacervo del pianto;
il bisogno trattiene l’umido,
la membrana calda di una placenta sfaldata,
il richiamo del sussulto 
di quel giorno iniziato a occhi chiusi,
che li vedrà sbarrati nel finire.
Come un serpente che si prepara alla vita nuova,
ogni forza esce da questo corpo
Come una gallina che volendo volare
si cavi le ossa
Dimenticai fosse necessaria la determinazione
che consente al corpo di direzionarsi
di non poggiarsi nei solchi da cui si è divelto.”


“Sei trascinato dalla testa come le marionette?
o dalla pancia come i burattini?” 
Non siamo nani sollevati dalle spalle dei giganti
ma piattole sottili, schiacciate da incombenze pregresse e mai esperite,
inermi e zitti non per l’imbarazzo della forza
ma per l’affermarsi della propria coscienza.

Articolazioni di stelle meste in vedovile contemplazione
accorsero dalla fine dei tempi a popolare la Terra,
frammentatesi in ossa, sparsero accidenti 
di polvere in spirali d’insonne diserzione
perché la frontiera ha contenuto senza struttura
indulgenti, indolenti, d’abulica insistenza
come strali di tempesta smossero la sostanza del suono.

Ficcare la testa sotto la superficie
del mare pur di perdere il suono
di questa terra che batte e infrange
orbite profonde fondali a millemila leghe nascosti.
Tra il verde chiaro, la sabbia e le alghe,
io, chiusa in questa stanza di liquido azzurro
con la luce elettrica che traballa
mossa da uno tsunami che sobbalza,
ho le orecchie tappate dal turbinare
di onde lontane lontane
che da orbite a millemila leghe nascoste
s’agitano pur di giungere ai miei sensi
a modificarne il fiato, la stasi.
La mia stasi, la mia ostinazione di stasi,
nulla può, seppur contraria alle acque antiche 
che crudeli scelsero di giungere a me.

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