di Giorgia Deidda, Ilaria Palomba, Emilia Vetere
la fotografia di Ilaria Palomba è stata scattata da Dino Ignani; quella di Emilia Vetere da Giulio Irving
Lo sento, questo, ed è un dolore vivo; buio accecante, e mi spaventa solo non avere più paura di uccidere. Lo scorrere di strade solitarie; le storie di vite che rimarranno memorie amare di sorrisi e spine. La mia rabbia, lo generalizzare; il tentativo cieco di capire cos'è che ha stabilito ogni confine. E si accavallano timbri e frontiere. Ricordi e gioie, vita e sofferenza. Incapace di innamorarmi ancora, incapace a provare indifferenza.
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Cosa fa di una zolla l’armatura impudicizia da doppelgänger? Astrale rovente ricerca virtuale del senso rovesciato - grande io scomposto in decimo limbico - larvale, placido starsi accanto nella stanza Satantango grande e piena di cocci. Vorrei tu mi strappassi le vesti, i capelli, poi lembi di pelle, lo scheletro guasto. Voglio restarti addosso puro desiderio senza corpo.
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È lucido l'opale degli occhi; porta con sé il nero carbone che raccogliesti sul monte, d'estate. E morire sulle rive del mare, Tadzio adolescente e di piuma, compatto. Sostava l'acqua; il tempo fermo, indispettito. E così, seduto sulla tua banchina, moristi - la tua ultima visione, il fanciullo.