a cura di Francesco Terracciano
da La gioia dell’acerbo (Ladolfi, 2021)
E nel muoversi tutto far muovere. Il battito cupo d’asfalto, il conteggio dei passi, la polvere e i sassi e orrende le quieti del vivere persi, inoltrati a far versi o a tentare finalmente l’errore. Andar via dai meandri del cuore.
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Per questa veglia che il mattino ingombra di silenzio pura respira la gioia dell’acerbo, la gioia del talento che troverà il suo verbo, la spola tra l’intimo e l’altrove, l’ansia che vestirà l’ingenuità del corpo.
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Ci saranno rilasci a catena. prima il sole, poi il cielo e infine l’ultimo brandello di tempo.
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Fu tempo come ora di salvarsi. Di trovare il sacello, lo splendore del mistero. Le stanze furono adattate. Sedevo alla destra del padre.
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L’errore era al mio capezzale e ancora non lo vedevo. Quello che avevo Imparato dimenticavo.
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Attente, su per il vasto movimento della vita le trasparenti applicazioni della mente a scrivere e a tradurre un’accensione di passaggio e della rosa muta quel profumo che dispera.
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Nessuno nasce così piccolo come quando muore. Nessuno nasce così innocente come quando muore.