a cura di Giovanna Frene
traduzione e introduzione di Alessandro Brusa
da Queer Negro Blues (Marco Saya, 2023)
Anteprima editoriale
SPOSTAMENTI
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole
n°64
“Come detto nell’introduzione, questo è il primo libro uscito in Italia interamente dedicato alle prime due raccolte di Langston Hughes e al periodo degli anni Venti del Novecento. Si tratta di anni fondamentali, nei quali Hughes sperimenta nuove forme in termini lessicali e musicali, siano queste interne al verso o sostanziali all’architettura del testo stesso. Si è già parlato del ritmo jazz, così come della struttura blues di numerosi suoi lavori. Al momento in cui ci si avventura nella traduzione di Hughes, per quanto riguarda l’aderenza alla forma jazz, ci si può concentrare soprattutto sulla velocità, il ritmo e la musicalità che, come accennato nell’introduzione, non possono essere ricreati nella scrittura poetica se non negli intenti. Ho cercato, soprattutto, di catturare la forza e la vivacità strumentale, così come il ritmo sincopato, tramite il ricorso a un fraseggio veloce, sia in termini di lunghezza del verso sia di lunghezza delle parole scelte. Questo porta, in particolari situazioni e a causa della brevità del verso, a rinunciare ad alcune rime. Ho cercato, quindi, di mantenere una certa musicalità attraverso assonanze, allitterazioni e richiami sonori non in forma rimata.
Diversa è la questione relativa alla struttura che rimanda alla tradizione del Blues. Hughes stesso, in un’appendice a Fine Clothes to the Jews, ci spiega la forma che deve avere un componimento blues: pensare di tradurre certi testi senza rispettare questa struttura implica la perdita dell’unicità della sua scrittura. In questo caso, le rime interne, ma soprattutto quelle a fine verso, diventano il senso vero del testo. Le due uniche traduzioni italiane (quella del 1968, così come quella del 1979) non contemplano il mantenimento della rima, concentrandosi principalmente sul lessico, valutato soprattutto per il portato politico; bias, questo, che nelle precedenti antologie italiane si è manifestato anche nella scelta dei testi antologizzati e che ha portato a tralasciarne alcuni fondamentali (lo dimostra il confronto con antologie dello stesso autore in lingua inglese): a mio parere, tralasciare l’aspetto musicale, relegarlo a un fattore unicamente estetico o peggio, a un vezzo borghese, significa sottovalutarne il portato rivoluzionario. (…)
Più complesso è stato riprodurre l’utilizzo che Hughes fa dello Slang degli afroamericani dell’epoca. Scegliere un linguaggio gergale italiano era assolutamente impossibile e fuori luogo, così come sono state scartate le forme dialettali, anche quelle non troppo caratterizzate. Soluzioni simili avrebbero portato con sé forti connotazioni geografiche e culturali avulse dal contesto originale. Si è quindi deciso di utilizzare un linguaggio informale e un registro popolare, per riportare quanto più fedelmente possibile le espressioni in prima persona di personaggi appartenenti alle classi sociali emarginate: esattamente quelle a cui Hughes ha dedicato tutta la sua attività letteraria.
dalla Nota sulla traduzione
Proem
I am a Negro: Black as the night is black, Black like the depths of my Africa. I’ve been a slave: Caesar told me to keep his door-steps clean. I brushed the boots of Washington. I’ve been a worker: Under my hand the pyramids arose. I made mortar for the Woolworth Building. I’ve been a singer: All the way from Africa to Georgia I carried my sorrow songs. I made ragtime. I’ve been a victim: The Belgians cut off my hands in the Congo. They lynch me still in Mississippi. I am a Negro: Black as the night is black, Black like the depths of my Africa.
Proemio
Sono un Negro: Nero come la notte è nera, Nero come gli abissi della mia Africa. Sono stato uno schiavo: Cesare mi faceva lavare le scale A Washington lucidavo gli stivali. Sono stato un muratore: Sotto le mie mani sono sorte le piramidi. Ho fatto il cemento per il Woolworth Building. Sono stato un cantante: Dall’africa fino in Georgia Ho portato i miei tristi canti. Ho creato il ragtime. Sono stato una vittima: I belgi mi hanno tagliato le mani in Congo. Ancora mi linciano nel Mississippi. Sono un Negro: Nero come la notte è nera, Nero come gli abissi della mia Africa.
The Weary Blues
Droning a drowsy syncopated tune, Rocking back and forth to a mellow croon, I heard a Negro play. Down on Lenox Avenue the other night By the pale dull pallor of an old gas light He did a lazy sway.... He did a lazy sway.... To the tune o’ those Weary Blues. With his ebony hands on each ivory key He made that poor piano moan with melody. O Blues! Swaying to and fro on his rickety stool He played that sad raggy tune like a musical fool. Sweet Blues! Coming from a black man’s soul. O Blues! In a deep song voice with a melancholy tone I heard that Negro sing, that old piano moan “Ain’t got nobody in all this world, Ain’t got nobody but ma self. I’s gwine to quit ma frownin’ And put ma troubles on the shelf.” Thump, thump, thump, went his foot on the foor. He played a few chords then he sang some more- “I got the Weary Blues And I can’t be satisfied. Got the Weary Blues And can’t be satisfied- I ain’t happy no mo’ And I wish that I had died.” And far into the night he crooned that tune. The stars went out and so did the moon. The singer stopped playing and went to bed While the Weary Blues echoed through his head. He slept like a rock or a man that’s dead.
Blues Stanco
Canticchiando un pigro motivetto sincopato Ciondolando al ritmo di una canzoncina rilassata, Era un Negro quello che suonava. Giù per Lenox Avenue l’altra sera Alla luce fioca di una lampada se ne stava Ondeggiando pigramente.... Ondeggiando pigramente .... Al suono di quel blues stanco. Con mani d’ebano quei tasti d’avorio suona E di quella musica il povero piano sospira. Ooo blues! Ondeggiando su di uno sgabello malandato Suona quel triste motivo come un invasato. Dolce Blues! Che sboccia dall’anima di un nero. Ooo blues! Di voce profonda il suono, di un triste accento Il Negro canta mentre il piano gli geme accanto: “Non ho nessuno al mondo Nessuno se non io Smetterò di preoccuparmi Lascerò i guai nell’oblio” Thump, thump, thump, dava col piede sul pavimento Un paio di accordi per rinnovare poi quel canto “Dentro me c’è un blues stanco E una vita inquieta dentro porto Dentro di me c’è un blues stanco E una vita inquieta dentro porto Io proprio non sono più felice E vorrei davvero essere morto” E fino a notte fonda cantò quel motivetto. Sparirono le stelle e così fece anche la luna. Andò a dormire quando smise di suonare, Di quel Blues stanco non se ne riusciva a liberare. E dormì così, come un sasso, o come un morto sa fare.
The Negro Speaks of Rivers
To W.E.B. DuBois
I’ve known rivers: I’ve known rivers ancient as the world and older than the flow of human blood in human veins. My soul has grown deep like the rivers. I bathed in the Euphrates when dawns were young. I built my hut near the Congo and it lulled me to sleep. I looked upon the Nile and raised the pyramids above it. I heard the singing of the Mississippi when Abe Lincoln went down to New Orleans, and I’ve seen its muddy bosom turn all golden in the sunset. I’ve known rivers: Ancient, dusky rivers. My soul has grown deep like the rivers.
Il Negro parla dei fiumi
Per W.E.B. Dubois
Li conosco i fiumi: Li conosco i fiumi, antichi come il mondo e già più vecchi del flusso del sangue umano nelle umane vene. La mia anima s’è fatta profonda come i fiumi. Mi sono bagnato nelle acque dell’Eufrate quando le albe erano giovani. Ho costruito la mia capanna vicino al Congo che mi cullava nel sonno. Ho guardato il Nilo e su di esso ho innalzato le piramidi. Ho sentito il canto del Mississippi quando Abe Lincoln scese a New Orleans, e ho visto quel cuore fangoso farsi d’oro al tramonto. Li conosco i fiumi: Fiumi antichi e scuri. La mia anima s’è fatta profonda, come i fiumi.
Brass Spittoons
Clean the spittoons, boy. Detroit, Chicago, Atlantic City, Palm Beach. Clean the spittoons. The steam in hotel kitchens, And the smoke in hotel lobbies, And the slime in hotel spittoons: Part of my life. Hey, boy! A nickel, A dime, A dollar, Two dollars a day. Hey, boy! A nickel, A dime, A dollar, Two dollars Buy shoes for the baby. House rent to pay. Gin on Saturday, Church on Sunday. My God! Babies and gin and church And women and Sunday All mixed with dimes and Dollars and clean spittoons And house rent to pay. Hey, boy! A bright bowl of brass is beautiful to the Lord. Bright polished brass like the cymbals Of King David’s dancers, Like the wine cups of Solomon. Hey, boy! A clean spittoon on the altar of the Lord. A clean bright spittoon all newly polished— At least I can offer that. Com’mere, boy!
Sputacchiere di Ottone
Pulisci le sputacchiere, ragazzo. Detroit Chicago, Atlantic City, Palm Beach. Pulisci le sputacchiere. Il vapore nelle cucine degli hotel, E il fumo negli atrii degli hotel, E la bava nelle sputacchiere degli hotel: È fatta così la mia vita. Hey, ragazzo! Un nichelino, Un decino, Un dollaro, Due dollari al giorno. Hey, ragazzo! Un nichelino, Un decino, Un dollaro, Due dollari Per le scarpe del bambino. L’affitto da pagare. Il gin di sabato. La chiesa la domenica. Mio Dio! I bambini, il gin, la chiesa. Le donne e la domenica Tutto assieme coi decini e I dollari e le sputacchiere pulite E l’affitto da pagare. Hey ragazzo! Al Signore piacerà una bella ciotola di ottone scintillante. Ottone bello lucido e scintillante come i cimbali Dei danzatori di Re Davide, Come le coppe di vino di Salomone. Hey ragazzo! Una sputacchiera pulita sull’altare del Signore. Una sputacchiera pulita e scintillante appena lucidata: Quello almeno posso fare. Forza su, ragazzo!
Epilogue
Epilogue I, too, sing America. I am the darker brother. They send me to eat in the kitchen When company comes, But I laugh, And eat well, And grow strong. Tomorrow, I’ll sit at the table When company comes. Nobody’ll dare Say to me, “Eat in the kitchen,” Then. Besides, They’Il see how beautiful I am And be ashamed.- I, too, am America.
Epilogo
Io, anche io, canto l’America. Io sono il fratello, quello più scuro. Mi mandano a mangiare in cucina Quando viene gente, Ma io rido, Mangio bene, E cresco forte. Un giorno, Siederò a tavola Quando verrà gente. Nessuno oserà Dirmi, “Mangia in cucina”, Allora. Del resto, Vedranno quanto sono bello E si vergogneranno: Io, anche io, canto l’America.