Mario De Santis | Poesie

a cura di Giovanna Frene

Cinque poesie da Corpi solubili, (Pordenonelegge – Samuele editore, Collana Gialla Oro, 2023)

fotografia di Valentina Tamborra


SPOSTAMENTI #80
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole


Ho fissato per anni, al quarto piano di un palazzo,
due fabbriche di carta e pacchi e il rendez-vous degli operai
(tutto il cemento dei muri era bruciato) sdraiati al sole
a bocca aperta, erano statue degli scavi
di Pompei, cantavano, muti e gemelli
di salme laviche, i loro corpi vivi sopra gli imballaggi,
l’attesa in tempi morti, in un domani scosceso, la forma sana
in cui giacere, con cui contengono le cose.
Prima di ogni istante è già accaduto di morire,
ma non è mai completo il modo, in un tempo ritardato
della pausa-produzione, è un’ora troppo lunga o larga, stilla
traversa il cosmo cava in allucinazione. L’ora non dovuta
si è dissolta in scheletri, nei macchinari morti
e nei piloni. Lo vedevo quel futuro (un token di esilio
composto e digitale, adesso asciutto in troppa luce)
l’avvenire del moschino imprendibile nascosto
all’angolo dell’occhio. Lo sguardo poteva comunque
decorare la piana polverosa della statale Tiburtina
con le muffe di gessi, o il marmo trito dell’Impero,
la neve all’orizzonte. E non c’è altro
che vada verso l’orizzonte da cui tornare. Nessun evento.
Ogni città è un dono di congetture, piani falsi
e dighe, sommati replay dei fotofinish, a volte un viso vero.
Tutto si dilata, il mondo e l’inventario dei corpi fermi
anche in ozio sull’Aniene. A riva nessuno azzarda
il colpo, lo scintillio a coprire fango velenoso e pesci morti
(sul greto, tra le canne, qualcuno inginocchiato
ancora vivo dal passato, invano, supplica).

1983 – 2023

*

nudo presente, buchi e stazioni ordinate
di quella calma che ha l’olio dipinto, con la domanda
che scarcera e poi non c’è che le chiavi, le intenzioni di dolo
tutte separazioni di elementi che ci lasciano esistere.
non solo: come di fronte a quel regno aperto di cenere
che sono scavi e sono gru, trivellazioni, la fretta di chi passa
diventa fuga di colori, sciarpe come pennelli, tutto gocciando
copre un sentiero che si era aperto nel verde e nel caos;
qui nel venerdì di una città posso accettare che né la prigionia
né il troppo vasto lago misuri le distanze
moltiplicate dalle agonie, quel fiatare braccato
e stretto in un vagone pieno, ore di punta e solitari
in un macello non previsto,
poi calmi, a lavorare in un piano vuoto e intero.

(Dopo la storia, i figli)

nei sogni non c’è mai il cielo o una parete di carbonio, un velo
dove guardare sangue nella cenere, senz’anni, né filo di coriandoli.
Conta il risveglio, compare dal fondo un lascito, somiglia
a un calcio all’aria di ragazzo, gli occhi gialli,
lento, impreparato ad avere in punta i nervi che colpisce,
le sneaker sporche, la smania a friggere per l’impossibile.
il piede: un conio sulla porta chiusa, il vento fuori
che decide e urla, ombra di tutti i nostri agguati. La storia genera
perché niente splende se non brucia, come le guerre
il tempo delle colpe si consuma in una rissa.
è dopo anelli di morte che si ricomincia a capire gli anni
da un capillare occluso, dalla spirale di tagli, di abbandoni, l’aria
vuota di una conchiglia – e l’ascolto cieco del rumore,
al fondo dove i figli dei fantasmi sono un unico corpo immobile
che ci sopravvive.

*

il bianco brina di automobili, la massa, Novara Park
schierate a plotone d’assalto: agli occhi in corsa, dal treno,
arrivano le spalle bombate dei Suv, i mercenari,
l’armata d’oriente di Ciro. La strinata acquerugiola distesa
sui tetti si fa bamba dal cielo, oh cielito, cielito lindo, bava
della luna di riflesso (o sudore vivo di criminali assolti
o bare lucide). Sospese in un giudizio finale, nessuna colpa
lamiera sfarinata in polvere – paura – muti i pannelli di accensione,
fino a quando i motori del duemila e ventotto
saranno accesi e noi distesi e coperti da lenzuoli
di seta bianca, dopo gli apparenti incidenti, o quei lenzuoli del dopo
(dopo, chiuse le case, le bare, messi sui mobili
che restano, mentre noi saremo in fuga).
Le distese croci bianche alle spalle, un cimitero alleato
o Cimitero Maggiore dei bombardati
sotto il cielo di Milano, cadaveri stesi come creme
del viso sulle rughe, con sindone dei mai risorti,
dei conservati, dei senzatetto ritrovati, morti
nel gelo, nella purezza bianca del tempo, che si ferma.

(Afasie e dopo)

tutti insieme in una classe, la sfilata dei profili.
tutta solo nei volti: un’amistà di barbari –
i corpi nel poco, gli anni nei germi
sepolti – i nomi azzerati. in una foto cova un’ellissi,
abilita la storia. Ci raggiunge dove siamo evasi
dalla prima elementare, da tutto
ciò che non è solo facce nel vapore, pelle data al sangue
dell’infanzia e il presente che scompare (riemergono i secoli
nel punto del vaiolo: una superficie che era e rimane invisibile,
attorno a noi, sulle scale della scuola e oltre i giovani pini,
che saranno seccati e nient’altro da capire
se non millenovecentosettantuno).
Così traspare e sparge traiettorie una forza
nel non essere niente altro che una stampa, campo
che resiste alle memorie, che non ha sostanza e geometria
in cui non conta più essere stati il futuro e qualcuno,
ma neppure vivi e sospesi, in un’esistenza volitiva e leale
che si allunga con flussi di linfe e molecole da dove
eravamo già stati, ma senza di noi. una stessa onda
rimane se

13 febbraio 2024


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