a cura di Giovanna Frene
da il cielo era già in noi, a cura di Gianluca Armaroli, Domenico Brancale e Giorgiomaria Cornelio, con uno scritto di Rubina Giorgi (Argolibri 2023).
SPOSTAMENTI #81
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole
“(…) Varcata la soglia degli anni ’80, Franco Ferrara nutre la certezza, sulla scorta di quanto ha covato e di tutta l’esperienza attraversata, che i tempi sono ormai maturi per imprimere all’abisso del proprio multiforme incanto il carattere univoco dell’essere. Eppure, l’occasione che davvero smuove la sua vita arriva quasi per caso, quando un amico di vecchia data lo invita a prender parte a un’impresa inverosimile, formidabile, luminosissima per la sua sete d’infinito e di inesauribile ricerca: svolgere, per conto dell’Unesco, una serie di missioni nel deserto del Sahara atte a dimostrare, sulla base del rinvenimento di tracce archeologiche valide, l’esistenza di vie carovaniere impiegate dai Romani nei commerci coloniali. Le spedizioni cominciano subito e si susseguono di anno in anno nei mesi dell’autunno e dell’inverno. Per Franco è il miraggio totale, la seduzione, il sogno che lo assorbe e lo dissangua di tutte le energie: del corpo, della fede, dell’intelletto razionale e dell’estro poietico.
È da qui che nasce il primo dei quattro capolavori che vedranno la luce nel giro di soli cinque anni: La trasgressione del silenzio, un poema di impianto alchemico ed ermetico tutto ricamato intorno all’assillo sapienziale del dramma espressivo: un’ontologia della creazione, una perlustrazione incalzante, ebbra, autogonica e chirurgica delle possibilità e dei più intimi processi della parola poetica. Un altro fattore, però, viene ora ad accostarsi ai viaggi in Africa, agli studi storiografici, alla collezione smisurata di reperti e manufatti: ed è l’amore, che in breve tempo arriva a pervadere e a informare di se stesso l’intero orizzonte esistenziale dello studioso e dell’esploratore, dell’uomo e del poeta. La donna invisibile, sfuggente — lieve come un suono e insieme fissa, indelebile quanto una parola di bambina —, la donna che posa il suo sigillo senza tempo sulle opere di questi anni, è la protagonista e destinataria delle Lettere a Natasha: un cantico turbinoso e a tratti scompigliato, ironico, teneramente arruffato, che dal fondale a due di un dialogo sommesso, Franco Ferrara innalza all’amore sfaccettato, all’amore che si nutre della compresenza del mondo, dell’immanenza di questa coalizione di cause, eventi, viaggi, letture, scoperte e stati d’animo cangianti che è la vita. Ma non bastava. Natasha diventa, appena tre anni più tardi, il centro assoluto di un poema immenso, non per lunghezza ma per la sua resistenza a qualsiasi attributo, definizione, tentativo della mente e della lingua di rapirlo all’ambito celeste e oltreumano in cui si situa. È Imżad: l’inno all’amata, concepito nelle interminabili notti desertiche tra la fessura di una tenda e la luce di un falò, il cui titolo trae il
nome dal violino monocorde usato dalle donne del popolo Tuareg per accompagnare il canto nelle corti d’amore. (…)”
(Dall’introduzione di Gianluca Armaroli)
Il libro il cielo era già in noi contiene tre degli ultimi volumi di versi di Franco Ferrara, ovvero La trasgressione del silenzio, Imzàd e Questo intendevo dire. Come indicato anche dell’editore Argolibri, che ringraziamo per la concessione alla pubblicazione, per i testi che seguono non è stato possibile rispettare l’impaginazione originale.
sud-ovest di Tamanrasset, Hoggar,
Sahara Occidentale
dicembre millenovecentottantaquattro
V
forse, ancora la circostanza: la vipera,
l’anguilla meridiana, il coltello, la faina
nello zodiaco
e sempre
nell’ansia di questa grata
(fittissima)
e nel fruscìo delle acque nel cuore
del cristallo
(e poi: nella neve è forse più semplice
stanare la foglia bianchissima), anche
rabbrividendo sotto la pelle elettrica
delle lampade
nell’alluvione di farfalle piumose (e con parole
assiepate per la statura minima
della teca ove riporre l’idioma coagulato
dei sogni ventriloqui e la polpa azzurra
delle comete)
e la sorpresa per la risacca ustoria
dei millepiedi nel fumo affollato
delle acetilene sopra la retina.
Certo: sorprende questo turchino manufatto
capogiro d’un osso residuo
in trucioli di malva
e la punta finissima d’un mignolo iodato
a tentare lo scacco proprio nella strettoia del silenzio
e nella reticenza degli attigui universi.
Eppure tracciammo mappe e sortilegi
e fiutammo antichissime vie nell’anello
dei tronchi;
e il luogo, dopotutto; e la presenza
d’un’estrema infermità nell’osso calcinato
sulla carcassa dei fiumi;
o è questa, forse
la condizione necessaria ai lembi
della ferita?
e sempre da questo lato della coscienza
ove il tempo s’assiepa proprio in un tratto
circolare
anche nel rischio di dissolversi
negli occhi gialli del midollo d’un viaggio
senza orientamento
(o nel ventre riarso d’una ghirba in sospensione
cardiaca e nel fogliame del medesimo
ovunque
e sempre ripercorrendolo il disperato esercizio
delle sabbie
per finire nella scacchiera della tempia
del medesimo luogo, stipato
e sempre più dentro a un tempo infinitesimo
— sebbene il parere degli orologi sancisca
un lanceolato scalfire degli annali
e l’era delle onde boscose
al confine dell’improrogabile mossa
e la necessità, comunque — ),
di là della grata;
o, forse
ancora la misura dell’equivoco
la compiacenza del tarlo
la gogna del reticolo, il forcipe
nel grembo del silenzio
il luogo erratico che la pietra eternamente
trattiene.
In questo è forse l’astuzia geometrica
dell’altrove;
il transito necessario per la trasgressione
del nucleo radiante
e questo vizio di resine
e pollini ed erbe propizie, forse
l’implicazione necessaria per l’alleanza
di veglia e sonno;
o il tempo; sebbene,
(come la sabbia) questo adunco lunario
il silenzio
attraversa
nello stupore bianchissimo
della foglia.
(da La trasgressione del silenzio, 1984)
*
Vorrei parlarti con parole d’uomo che ha bevuto
al pozzo della propria bocca,
quando
— nel cielo del Tanezrouft
tessendo l’elogio delle tue mani —
disseccavo la mia gola
in un cilicio di sole
e silenzio
e uno spazio senza tempo
enumerava dinastie d’ambra, asce
ammonìti
imprigionando le mie orme nella rèsina
di un sogno
e il sogno delle tue dita
raccoglieva nubi sopra la mia arsura.
Quando fuggiasco ferito agli occhi dai tuoi capelli
non mendicavo grucce di licheni
al luogo a me estraneo della tua migrazione,
né trastulli agrodolci
fèudi di piume, nettare e tralci d’angelo
o crepe di dolcezza
al silenzio.
Quando nella necessità di non essere
(e nella inclinazione caparbia
ad essere)
affilavo l’anima su queste selci
e tendendo le mani alle corde basaltiche
e ai lapilli
lambivo la brina della tua fronte
e dal vuoto della mia gola vasto come un töböl
strappato nel vento
ti chiamavo serrando tra i denti le redini
di antichi fiumi
e ti parlavo nel sudore di pietre erette
sui labirinti delle sabbie
come alberi incisi per la memoria di un solo giorno.
Quando indossavo una luna nuova per schermare nel suo pallore
la polvere d’oro della mia preghiera
scrivendoti
— in apparenza —
dal sotterraneo di segni adulterati
— come ad altri da te —
e nella confusione delle lingue
e dei nomi
(sebbene al realissimo te di cui appropriavo
forma, colori
immagine
sostanza),
e camminavo sul greto della mia arsura
in cerca di acqua
e ferivo la mano nel silenzio d’una guèlta
e gli occhi s’accecavano
non irrorati dalla tua immagine.
Quando stringevo un asse librale appena sottratto
alle chele di queste sabbie
e portavo alle labbra
quell’isola,
e l’effige della piccola prua
(dietro la doppia fronte di Giano);
e il fiume
— a un passo dalla tua casa —,
il giorno che la mia stuoia di vento varcava i gusci
di questo esilio
e i gabbiani delle tue dita
sottraevano anche quel bronzo
al bulino del tempo.
Quando avrei voluto parlarti sotto quel cielo del Tanezrouft
dove immergevo le mani come nel ventre d’un agnello
per trarne in presagio
l’avorio del tuo nome
e graffiavo parole nel vento rosso del crepuscolo
sigillandole poi nella pietra
che delimita l’accesso
all’assenza
e nutrivo la mia sete
per placarla senza chiederti
acqua
perché era necessario, allora
attraversare la cruna di questo deserto
e conoscere quanto di noi
è chiamato a morire
e a vivere.
*
Oggi ho percorso la pista di Amedgel
e l’oasi di Elbarkat
è lontana come le torri lapidee del Tigherà.
Sono colpito da un male di verghe d’oro
e una stanchezza che non è dell’uomo
m’insegue come un vuoto millenario
da quando — al ritorno dalle piste tracciate
ad ovest di Tamanrasset
e nell’Asedjrad,
guardandoti
seduta sul mio tappeto chaamba
accanto ai fossili del Gourara —
ti indicavo la zona in cui ci smarrimmo
a sud di In Salah,
e ti mostravo le frecce del Grande Erg, le maschere, i legni intagliati
la lampada ad olio dove scrivesti il tuo nome
gli amuleti che ancora conservi
la pietra parlante del Tademaït
(caduta sotto il tuo letto)
le alghe calcaree raccolte nelle impronte dei laghi salati
di Azzel-Mattí, Mekerrhane
Timimoun
e che più tardi ti cinsero il polso;
il giorno che trovai le mie reti impigliate
nel vortice di un ricordo
— guardandoti —
come al ritorno da un lontanissimo giorno
sul punto di ricomporsi nel tempo.
(da Imzàd, 1987-1988)
Franco Ferrara (16 marzo 1935 – 23 gennaio 2014) è stato esploratore, archeologo e poeta, nonché critico d’arte e fondatore di riviste letterarie. Ha pubblicato in vita oltre venti libri di poesia, tradotto dal polacco T.Karpowicz e U.Koziol, e lasciato incompiuto un romanzo comico-fantastico dal titolo Ritorno alle Indie meridiane, sua “dilettosa narranza”.
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