Elisa Ruotolo | Alveare

a cura di Giovanna Frene
da Alveare (Crocetti 2023)
fotografia di Riccardo Piccirillo
n.d.r. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione


SPOSTAMENTI #91
Rubrica di poesie, parole sulle poesie e parole sulle parole


Inverno

Ogni voce è perduta e dagli occhi non arriva
grazia. Inospitale, il gelo ci fa dormire e ottunde
la profezia del verde. Tutto cade dall’alto
la pioggia lava, poi la neve imbianca
e fa di noi soldati che obbediscono contro cuore
alla trincea e già raccontare non sanno 
la propria memoria.
Mentre l’inverno apparecchia sventure alle linfe
impariamo una nuova preghiera 
e il congedo dai chiodi dell’estate. 
La morchia della terra mescolata all’umore
l’innesto del sonno sul moto mercuriale dei corpi,
la breve paga del riposo, ci annodano in un torpore
ingordo, che distanzia ogni amore di veglia. 
Il glomere pulsa di fiamma e protezione
nel suo miracolo un delirio senza tregua
- ventre nero, dubbio di vita, antro in cui si scende
da cavatori in cerca d’un rimedio 
alla stagione. 
I campi sono nudi e i fiori, nel bavaglio del freddo
non chiamano da tempo.
Ogni promessa è rimandata e persino il cielo
- sempre fermo
persino lui ci lascia e va lontano, quasi crudele
va a cercare altrove, in altri deserti 
la sua dolcezza. 
È inverno, e lui sa farci piccole davvero
mentre la resurrezione è remota, 
irreale
quanto la primavera.

L’apicoltore

Il buio è madre
tutto accade in un ventre.
La luce poi lo insidia
diventa così tanta
da chiudere gli occhi.
Sotto le palpebre restano scintille
ronzanti come sciami.
Tu puoi lottare per tenerla fuori
ma è luce che t’insegue
ovunque
più invadente dell’erba
a primavera, più sfrontata dell’ozio
che divora il gesto,
più assidua del malanno
nel tentare la ferita.
E quando penetra nell’alveare
imbratta il nero
lo trafigge.
Carezza un brulichio di affanni
una fatica che brucia
come sale.
Lo sentite?
Sentite anche voi là dentro
il rumore delle vite?
Ognuna che lavora, vuole, rinuncia,
edifica e distrugge
uccide
e poi alleva.
In questa meccanica non hanno bisogno
di me ed è la mia pena.
Pur non sorvegliando
so che quel lavoro continuerebbe
– come il desiderio a spingere
la rinuncia a incrudelire
la distruzione a fare danni fino a patteggiare
con la pietra che cresce.
È la morte ad accudirle
nella culla, e poi la vita le distenderà
nell'asciutto nido d’una cassa.
Mi avvicino senza essere visto
con la cautela di chi ha paura.
Di me hanno un’idea incerta
sono per loro una specie di infinito
che minaccia
– un estraneo
l’orma di un ordine primario
la possibilità di non discendere dal niente
e non doverci tornare
alla fine.
Amarli? Di loro ho bisogno
o non sarei
– come non esiste fondo senza mare
né figlio senza madre
o grano senza un seme
divorato dalla terra.
Il pastore può forse amare
la moltitudine che si dà ciecamente
al suo governo?
Non è forse dominato dal ritmo
del branco, dal belato che comanda
di restare sulla pietra a sorvegliare,
a contare il patrimonio in zecche e lana,
a vegliare quell’odore di stalla?
Il pastore non ama
ma calcola, pretende,
teme la disgrazia della perdita
e nel suo buio invidia
chi ha giorni fatti di stanze
e di casa.
Come lui lo è del gregge
io sono la creatura dell’alveare
che ogni giorno fa di me l’apicoltore,
il dio d’un nettare che sgorga
non in obbedienza d’un volere
ma in soddisfazione d’una necessità.
Sono imperfetto e fragile
e come gli dei di sempre
annodo alla terra il mio bisogno.
Resto lontano, al riparo
dall’assalto – che non venga a toccarmi
il veleno dello sciame
turbato dalla peste della mia fame.
Dentro è caldo di folla e buio
la mia onnipotenza invece sta nel chiaro
risponde al nome che meno desidero
sa d’una eternità destinata a finire
mentre loro – i vivi dell’alveare
si rinnovano.
Ammassati in un inferno ridotto in scala
pulsano d’un calore che mi esclude,
che osservo senza comprendere La Città del miele
restando incompreso.
Il rischio di provarci, di ferirsi
disgusta ogni voglia
– il mio sapore non sazia
non ho miele da dare, io.


La Pupa

Quale volto ha la vita? Quale la morte?
E dove collocare il fondale più basso?
Ho troppe domande
in questa notte di voci in cui
non imparo a dormire eppure sogno,
e divento.
Vado avanti senza un luogo
mentre cresco e forzo la poca pelle che resta
contro il mondo.
Infanzia è stare fermi a nutrirsi – è attesa,
fame di tutto
il malinteso di un corpo che vibra
inascoltato, in una cella di limiti
e occasioni.
Uscire dalla culla sarà un andare per briciole
e cimiteri di rami che la vita – di machete
avrà già sfrondato.
Un educare la voce a fare
da lingua madre.
Sono molle contro il ferro del fuori
sono sinistra nel gioco del possibile
che mi rende inaffidabile
alla forma.
Cresco nel desiderio e nella perversione
di amare tutto – il dato e il negato.
Ma alla fine mi toccherà una vita sola
non un andito secondario per fuggirla
o un abaco puntuale
nella conta dei giorni.
Dureranno o sfrideranno in fretta? 
Batto contro il diaframma che mi tiene in disparte
e grido da questa infanzia di cautele
da questa cella che sa tutto di me
e io non indovino.
Cieca e bambina accumulo presagi per lo svago
quando arriverà a toccarmi.
Eccomi
rompo il guscio, m’insinuo nel taglio di vita
umida e in paura
mi guardo dall’alto degli occhi
e non capisco
cosa sarò e se dio saprà vedermi.
Nasco, e questa enormità non pesa niente,
questa solennità modesta
non fa rumore.
Sono qui
tra tanti
e non importa a nessuno.

(L'ultima poesia è tratta dalla sezione Voci dall'alverare. Ultimo stadio di sviluppo)

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