Diego Riccobene | Larvae

a cura di Lorenzo Pataro
da Larvae (Arcipelago Itaca, 2023)


La lima del sonnambulo riede
a sola sua remota fraudolenza
frugando con la punta
l’autologia, lo zwielicht che gli sugge
ogni agognato sorso
guizzato su lenzuola simulacro;
è qui che rigonfiava dopo il dogma
fecale onde gargottano il ritorno,
comecchessia prescritto:
la rada defuntoria n’è scoperta
e incardinato un lembo.

*

Ne fecero pilastri,
il Grande Ucciso e i suoi giuncagli d’erica
ad essere figliato dalle spore
d’un feretro, goliato sulla lingua
– l’averla deglutita,
come cucire il feto alla sinistra:
sapeste questo tutti fin da subito,
che non risolve dignità il discanto
di bere in pieno autunno
il rezzo di delizia necessaria
se poi s’imprenda intorno alle caviglie
l’afrore, l’incertezza
nidiace a norma di sovrabbondanza.

*

Rinsaldo con il malleo,
incorporando a organici convogli
le maschere deposte sugli avelli,
contubernali a incàvo come falde
di albugine divelta.
Triangolo di teste fisse ai vertici
– ne abbiam sgrossato i sessi,
ingioiellato mosche sui ventrami –
trisceli sgomberati dal fermento
nel mitilo imperfetto
poiché cresciuto avverso, stetocefalo,
e l’elmo sopra Dite, diffusore
solerte di caligine, le bocche
che coprono quel nocchio:
perforo di mysterium il mio petto,
scalfisco il bronzo, invoco l’altro Niente
e voglia questo confessare il Sacro.

*

Ancora mesce, ancora langue il ghiozzo
su areole di tarde adulatrici,
come smaltato fosse in untuoso
silenzio, e quanta disperazione
a rabberciare le frangiate terga,
quanta decenza lungo l’ambulacro
a torcere le dita e il sillabario
nella carezza al vasto tronco carneo,
dalle sue esauste sacche al pelo fulvo;
se fosse propensione a stillicidio
e mancamento, ovvero la clemenza
a paludare il santo intendimento
non ci sarà mai detto; adesso tace
nel mastice il peccato entomocòro,
e solo un septacefalo disgusto
sull’archivolto, pronubo del coito.

*

Opache sfere affebbrano coi brani
della sua bocca, la lungivagante
tiranna dal sudario liquefatto;
allappa sulla ghiandola del rospo
confitti denti, statico l’encausto
in vermiglione orrendo, di vassallo
in guisa, l’irrisolto gorgogliare
nella ciliata lingua senza accento
che soppresse il riguardo:
spremeva orina in estasi d’agarico
e quando si grattava la betulla
ne mordicava un trilobo,
rauca nel pianto e non meno protrusa
alla mitezza che divide il Filo.

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