Lorenzo Fava – Poemetto

La differenza fra ignoranza e perizia

È collegata in primis al senso della vista.

Che se una cosa non la dettagli

A poco a poco si perde

Ogni nostro incontro si è svolto

Sotto una scelta precisa solo tua,

E la mia premura era solo quella

Di arrivarci a posto con la coscienza,

Fare in modo che tutto fosse disposto

Al meglio, perché poi sarebbe stato

Il caos. Strategie non ne esistono

E se stanotte penso alle nostre mezz’ore,

Agli occhi che combaciavano, vorrà dire

Che non è stato un fischio di vento

A dettare sul mondo il nostro incontro,

Mai scivolato nel dimenticatoio

Sì è annidato come un uccellino

Sullo spago che ci lega e tiene distanti

Perché, come il ferro, non si piega.

Tu che forse hai idea di come è,

In fondo, l’abisso che hai scrutato

Tanto a lungo da assumerne i tratti,

Percepisci a dover di cronaca un bacio

Recapitato al destinatario. Rara

La possibilità di fare insieme cose

Che non si fanno mai col corpo, sei

La mia lingua, la sola differenza tra

Le mie geografie clandestine e ciò

Che ogni giorno mi umilia.

Se ripercorro passo a passo

Il tragitto fatto mano nella mano,

Attraverso uno per uno i nostri incontri

E non ho la forza di dire la sintesi

Di sentimento che provo, le cose

Che potevano essere non sono

Incandescenti quanto la mia inquietudine.

Condannato ad avere parole

Sopra cementi rinnovati ad ogni

Tuo sorriso con un filo di trucco,

Fredda e bollente. Anime contente

Eravamo pur se il cielo prometteva

Un addio di pioggia, tu ami le notti

Sui costoni dei monti, io incubo

Fili di voce come se ogni gomitolo

Fosse una strada per quel paradiso.

Tu che leggi su un prato il simbolo

Dell’infinito mentre io raccolgo

Il prezzo del peggio e tiro a formare

La mia forma sulla forma del furore.

Ma stanotte non esiste pronome

che non sia plurale, come se tutto

fosse fuori dalla misura umana

dello spazio. Esiste solamente

per adesso, poi mai più. So che

davanti ad un camino, ricordando

il bollore dei tuoi occhi una sera

d’un tardo ottobre, non starò

solo pensando, perché finché ho

la forza di parole fuori dal tempo

un ritornello suona così: siamo

noi quello stormo che migra e torna,

quella fantasia che dilaga nel reale

e si fa giostra, noi siamo questa

infinita sessione di corpo e voce

che tutto tiene vivo come brace,

non cessiamo di ardere, inceneriti

da sguardi che osservano ancora

prima di guardare, che smembrano

ancora prima di toccare e sanno

la brevità della luce, salvano

ancora prima di aggrapparsi

agli occhi dell’altro già distante.

Adesso ci sono ascolto e voce,

svanito ogni strillo sotto traccia

posso parlare con l’anima dura,

come una mela matura ho aspettato

mi cogliessi, ti togliessi i vestiti

sotto luci che avrei visto una volta

e addio. Io, che brindo alla colpa

in funzione della vetta raggiunta,

maledico ogni forma di violenza.

Tu, tatuata col senso del dovere

e la caratura di mille zaffiri, corri

i sentieri che portano alle stelle

perché ogni volta che mi sfiori

dalla mano sanguina un assolo

che finirà solo col pentimento.

Per te si fonde il metallo, per te

riscrivo la dinamica, per te dèi

e regine scendono dal parterre

e si battono nel macabro gioco

della vita umana. Immagina ora

la potenza della parola che ancora

non sconfina nella baraonda, sopra

milioni di anni di storia esistono

canzoni scritte per te. Eterna

e impossibile ascesa, condizione

necessaria alla ripresa della corsa

sei, guardi basso ma sai forse

la torsione che compie la lingua

nella pronuncia di un nome

che non scorderai almeno finché

i guai non avranno vinta la partita.

Ho la forza di continuare a credere,

dopo tutti questi inverni frapposti

fra noi come prove di coraggio,

che potremmo valicare controtempo

gli stessi paesi, mi dai misura

di un peso che per quantoe norme

non schiaccia la portata dell’orgoglio

e fa equo lo scambio con l’uomo

che sono ogni giorno, in disagio

perenne fra uomini maturi fuori

e acerbi nel nocciolo. Per questo

oggi volo altissimo, secco frasi

su frasi in un rigo adrenalinico

che è oltre il conto delle lettere,

nutre il cuore di sangue nuovo

e aspetta il brivido che segue.

So anche che seguire l’emozione

è un rovello acuminato, stride

nella corteccia più sottile, vive

di algebre chimiche e dà origine

al nulla o qualcosa non trovato.

Quale curva seguirà la tua vita,

quale sarà la dorsale più bella

che vedrai, io oggi lo ignoro,

ma sarai il riflesso speculare

di ogni mio gesto, un tentativo

di ricongiungere i capi dello spago,

dimostrare che il cerchio tracciato

attorno al nostro ultimo abbraccio

scrive il segno che separa paranoia

e volo. Io solo nel mondo che altro

non è che una stanza più grande

dove tu sei l’unico riferimento, non so

se il punto di fuga del mio sguardo,

localizzato il bersaglio, seguirà l’istinto

di trovarti una notte in un rifugio,

e nella tua iride questo incontro.

E saprò allora incontrovertibile

e irrevocabile questo nostro ricamo

sulla cerniera del tempo. Mi chiedesti

cosa fosse, il tempo, oggi dico

essere il lampo esploso nel giardino

dove corsi felice dopo un bacio

su labbra assottigliate da un sorriso.

Erano le tue, quelle soglie spalancate

al rapimento sulla vetta dell’umore,

sei arrivata come una lacerazione

a dividermi in due, io che intero, forse,

non lo sono stato mai. Adoro

la lirica che continua a dilaniarmi

ad ogni verso come un eroe

sotto il fuoco di mille fucili.

Quello che sei lo sei passo a passo,

il tono più alto si prende con esercizio,

così scrivere come amare, verbi

a temperatura sempre estrema.

Quel potere obliquo è la forza del pensiero,

entra nello specifico, dice la lettera

di un medico, il referto di un perito,

lo scritto di un poeta lirico: è dire

lo stesso, la stessa precisa balistica

che preme il grilletto dell’amore, d’altronde

oggi come ogni ottobre che attraverso

c’è sempre un cambiamento che conclude.

Eppure quel solco che divide

foto e filmato, retta e segmento

è qui e adesso, ci siamo dentro

e io detto ritmo all’aratro che empie

di colore la tela, serra il pugno,

battaglia vigoroso nel flusso e porta

il sorriso. Volevo dirtelo, domani

avrò le nocche scorticate, non sarò

più sensibile al freddo della lama

di una forbice o ai cori degli angeli,

ma avviterò il mio canto forte come

un mito, sarò io il millimetro

che separa le masse dei pianeti

e li tiene in equilibrio, libero da urgenze

e contratture, scevro da paure e malattie.

E guarderò i luoghi che ci videro

come un morto guarda la sua la pide,

con la calma dell’oriente, finalmente

dove merito di stare: fra prodigi e leggende.

Tu dal canto tuo preferira ifarti ergere

a idolo da un uomo trasparente, ti starà

come un addendo all’altro addendo

nel pallido tentativo di fare una somma.

Il mio tentativo di scrittura conta

i tuoi battiti, come questo contorno,

il nostro dirci ciao in punta di piedi.

Il tono che non preme a cedere certi

tuoi desideri, ciò che più vuoi, sappilo,

è dosare al meglio perché tutto

possa ergerti a solo tetto raggiunto. Conto

ancora sintagmi evoluti a visioni, ogni

coraggioso tentativo di reagire taglia

in due la paura di non farcela, rapida

rifugge per le vie, illude la gente

che tutto sia destinato al tracollo. Ma

non è vero, parte una nota, aurora

dopo la notte e tu stella del giorno

decimi la mie speranze di vivere

la più cruda delle vittorie. E scaccio

ladri dalla baita che abiti nella mia testa,

come un cane sto da guardia alla tua dimora,

ai sogni dati in pasto agli anni. Una volta

contavo il tempo in svenimenti

e sigarette spente, come un aliante

in mezzo alla bufera ero nell’oblio

di chi squarcia un suono senza

saperlo ricomporre. Astro che nasce

o stella morente, poco ci dispera

il non sapere mai qual è la  verità.

Eppure un poco oltre, fra dieci secondi

o mille anni sapremo se là fuori

abbiamo azzannato la scommessa

al collo e l’abbiamo vinta. Il domani sembra

sempre così distante, ci repelle

l’idea di ridere a crepapelle

e ci domandiamo cosa conta il verbo

alfanumerico, come se un verso pesato

fosse l’unità di misura dell’artista.

Quello che condanna noi alla resa

non può essere il tramonto del sole,

la fine del pacchetto, l’ormone equilibrato.

C’è qualcos’altro, qui nascosto.

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