La differenza fra ignoranza e perizia
È collegata in primis al senso della vista.
Che se una cosa non la dettagli
A poco a poco si perde
Ogni nostro incontro si è svolto
Sotto una scelta precisa solo tua,
E la mia premura era solo quella
Di arrivarci a posto con la coscienza,
Fare in modo che tutto fosse disposto
Al meglio, perché poi sarebbe stato
Il caos. Strategie non ne esistono
E se stanotte penso alle nostre mezz’ore,
Agli occhi che combaciavano, vorrà dire
Che non è stato un fischio di vento
A dettare sul mondo il nostro incontro,
Mai scivolato nel dimenticatoio
Sì è annidato come un uccellino
Sullo spago che ci lega e tiene distanti
Perché, come il ferro, non si piega.
Tu che forse hai idea di come è,
In fondo, l’abisso che hai scrutato
Tanto a lungo da assumerne i tratti,
Percepisci a dover di cronaca un bacio
Recapitato al destinatario. Rara
La possibilità di fare insieme cose
Che non si fanno mai col corpo, sei
La mia lingua, la sola differenza tra
Le mie geografie clandestine e ciò
Che ogni giorno mi umilia.
Se ripercorro passo a passo
Il tragitto fatto mano nella mano,
Attraverso uno per uno i nostri incontri
E non ho la forza di dire la sintesi
Di sentimento che provo, le cose
Che potevano essere non sono
Incandescenti quanto la mia inquietudine.
Condannato ad avere parole
Sopra cementi rinnovati ad ogni
Tuo sorriso con un filo di trucco,
Fredda e bollente. Anime contente
Eravamo pur se il cielo prometteva
Un addio di pioggia, tu ami le notti
Sui costoni dei monti, io incubo
Fili di voce come se ogni gomitolo
Fosse una strada per quel paradiso.
Tu che leggi su un prato il simbolo
Dell’infinito mentre io raccolgo
Il prezzo del peggio e tiro a formare
La mia forma sulla forma del furore.
Ma stanotte non esiste pronome
che non sia plurale, come se tutto
fosse fuori dalla misura umana
dello spazio. Esiste solamente
per adesso, poi mai più. So che
davanti ad un camino, ricordando
il bollore dei tuoi occhi una sera
d’un tardo ottobre, non starò
solo pensando, perché finché ho
la forza di parole fuori dal tempo
un ritornello suona così: siamo
noi quello stormo che migra e torna,
quella fantasia che dilaga nel reale
e si fa giostra, noi siamo questa
infinita sessione di corpo e voce
che tutto tiene vivo come brace,
non cessiamo di ardere, inceneriti
da sguardi che osservano ancora
prima di guardare, che smembrano
ancora prima di toccare e sanno
la brevità della luce, salvano
ancora prima di aggrapparsi
agli occhi dell’altro già distante.
Adesso ci sono ascolto e voce,
svanito ogni strillo sotto traccia
posso parlare con l’anima dura,
come una mela matura ho aspettato
mi cogliessi, ti togliessi i vestiti
sotto luci che avrei visto una volta
e addio. Io, che brindo alla colpa
in funzione della vetta raggiunta,
maledico ogni forma di violenza.
Tu, tatuata col senso del dovere
e la caratura di mille zaffiri, corri
i sentieri che portano alle stelle
perché ogni volta che mi sfiori
dalla mano sanguina un assolo
che finirà solo col pentimento.
Per te si fonde il metallo, per te
riscrivo la dinamica, per te dèi
e regine scendono dal parterre
e si battono nel macabro gioco
della vita umana. Immagina ora
la potenza della parola che ancora
non sconfina nella baraonda, sopra
milioni di anni di storia esistono
canzoni scritte per te. Eterna
e impossibile ascesa, condizione
necessaria alla ripresa della corsa
sei, guardi basso ma sai forse
la torsione che compie la lingua
nella pronuncia di un nome
che non scorderai almeno finché
i guai non avranno vinta la partita.
Ho la forza di continuare a credere,
dopo tutti questi inverni frapposti
fra noi come prove di coraggio,
che potremmo valicare controtempo
gli stessi paesi, mi dai misura
di un peso che per quantoe norme
non schiaccia la portata dell’orgoglio
e fa equo lo scambio con l’uomo
che sono ogni giorno, in disagio
perenne fra uomini maturi fuori
e acerbi nel nocciolo. Per questo
oggi volo altissimo, secco frasi
su frasi in un rigo adrenalinico
che è oltre il conto delle lettere,
nutre il cuore di sangue nuovo
e aspetta il brivido che segue.
So anche che seguire l’emozione
è un rovello acuminato, stride
nella corteccia più sottile, vive
di algebre chimiche e dà origine
al nulla o qualcosa non trovato.
Quale curva seguirà la tua vita,
quale sarà la dorsale più bella
che vedrai, io oggi lo ignoro,
ma sarai il riflesso speculare
di ogni mio gesto, un tentativo
di ricongiungere i capi dello spago,
dimostrare che il cerchio tracciato
attorno al nostro ultimo abbraccio
scrive il segno che separa paranoia
e volo. Io solo nel mondo che altro
non è che una stanza più grande
dove tu sei l’unico riferimento, non so
se il punto di fuga del mio sguardo,
localizzato il bersaglio, seguirà l’istinto
di trovarti una notte in un rifugio,
e nella tua iride questo incontro.
E saprò allora incontrovertibile
e irrevocabile questo nostro ricamo
sulla cerniera del tempo. Mi chiedesti
cosa fosse, il tempo, oggi dico
essere il lampo esploso nel giardino
dove corsi felice dopo un bacio
su labbra assottigliate da un sorriso.
Erano le tue, quelle soglie spalancate
al rapimento sulla vetta dell’umore,
sei arrivata come una lacerazione
a dividermi in due, io che intero, forse,
non lo sono stato mai. Adoro
la lirica che continua a dilaniarmi
ad ogni verso come un eroe
sotto il fuoco di mille fucili.
Quello che sei lo sei passo a passo,
il tono più alto si prende con esercizio,
così scrivere come amare, verbi
a temperatura sempre estrema.
Quel potere obliquo è la forza del pensiero,
entra nello specifico, dice la lettera
di un medico, il referto di un perito,
lo scritto di un poeta lirico: è dire
lo stesso, la stessa precisa balistica
che preme il grilletto dell’amore, d’altronde
oggi come ogni ottobre che attraverso
c’è sempre un cambiamento che conclude.
Eppure quel solco che divide
foto e filmato, retta e segmento
è qui e adesso, ci siamo dentro
e io detto ritmo all’aratro che empie
di colore la tela, serra il pugno,
battaglia vigoroso nel flusso e porta
il sorriso. Volevo dirtelo, domani
avrò le nocche scorticate, non sarò
più sensibile al freddo della lama
di una forbice o ai cori degli angeli,
ma avviterò il mio canto forte come
un mito, sarò io il millimetro
che separa le masse dei pianeti
e li tiene in equilibrio, libero da urgenze
e contratture, scevro da paure e malattie.
E guarderò i luoghi che ci videro
come un morto guarda la sua la pide,
con la calma dell’oriente, finalmente
dove merito di stare: fra prodigi e leggende.
Tu dal canto tuo preferira ifarti ergere
a idolo da un uomo trasparente, ti starà
come un addendo all’altro addendo
nel pallido tentativo di fare una somma.
Il mio tentativo di scrittura conta
i tuoi battiti, come questo contorno,
il nostro dirci ciao in punta di piedi.
Il tono che non preme a cedere certi
tuoi desideri, ciò che più vuoi, sappilo,
è dosare al meglio perché tutto
possa ergerti a solo tetto raggiunto. Conto
ancora sintagmi evoluti a visioni, ogni
coraggioso tentativo di reagire taglia
in due la paura di non farcela, rapida
rifugge per le vie, illude la gente
che tutto sia destinato al tracollo. Ma
non è vero, parte una nota, aurora
dopo la notte e tu stella del giorno
decimi la mie speranze di vivere
la più cruda delle vittorie. E scaccio
ladri dalla baita che abiti nella mia testa,
come un cane sto da guardia alla tua dimora,
ai sogni dati in pasto agli anni. Una volta
contavo il tempo in svenimenti
e sigarette spente, come un aliante
in mezzo alla bufera ero nell’oblio
di chi squarcia un suono senza
saperlo ricomporre. Astro che nasce
o stella morente, poco ci dispera
il non sapere mai qual è la verità.
Eppure un poco oltre, fra dieci secondi
o mille anni sapremo se là fuori
abbiamo azzannato la scommessa
al collo e l’abbiamo vinta. Il domani sembra
sempre così distante, ci repelle
l’idea di ridere a crepapelle
e ci domandiamo cosa conta il verbo
alfanumerico, come se un verso pesato
fosse l’unità di misura dell’artista.
Quello che condanna noi alla resa
non può essere il tramonto del sole,
la fine del pacchetto, l’ormone equilibrato.
C’è qualcos’altro, qui nascosto.