Non mi venite a chiamare.
Ho fatto fuori tutti i nomi che mi avevano dato i miei genitori.
Non sono più figlia e faccio la mia madre.
Ho scordato un certo tempo ma ricordo la sua fame.
Abitavo nel gesso, nessun gesto di nascita
mi era infine concesso.
Non mi venite a cercare.
Ho fatto fuori anche i nomi che mi avevano dato i miei amori.
Non sono più gambe, non sono più cuore.
Ho interrotto le strade tra i pensieri e i furori.
Sono tornata a nascere e amare
solo per i figli del sentimento che mi chiamano ora
e hanno finito le parole che fanno finti tutti i nomi.
*
Madre, conservami le parole dentro
la tasca sacra
dove hai sempre un testo vuoto
per spiegare le cose che come noi
non hanno metro.
Madre, contienimi la paura
di non sapermi davvero guardare indietro
mentre tu piangi ed io non so come farti andare avanti.
Sono sempre io
la stessa bambina con il viso felice
nascosto dal tuo velo.
Non so perché per sopravvivere
ho imparato tutta sola ad amare la rima
che più presto ci avvicina
a quella nostra primissima idea di cielo.
*
Ma la notte io non ti concedo
di dimenticare il mio nome
e il mio sguardo nascondiglio.
Anche se ho un’aria stanca che mette il velo
so quando
essere ancora il corpo santo
della festa di nostra vita.
Ho carne e pensiero accesi
a ridosso di un qualunque fuoco fatuo,
mi innamoro della possibilità di ogni improvvisa
luminescenza.
E i capelli, a farne lunghe stelle filanti
tra la brevità delle tue spalle,
sono le paure del giorno che più non mi diedi.
Ascoltami mentre mi tira il braccio,
e sempre questo bisogno di cielo,
a proteggere tutto il nostro sangue.
Ascoltami, ancora una volta,
al buio, io prendo la tua voce