Francesco Russo – Una poesia

Possa il cielo arrotondare il nostro

dolore senza fine. Possa arrotondare

il cielo l’arrotino col suo furgone 

spento. Possa arrotondare il cerchio

anche la povertà degli ultimi nel cielo.

Nel voltaggio fra le dita nel volteggio

resiste un fluorescente filo, filare

con un drago d’Oriente nel petto

e levante è il punto d’attacco del

nostro desiderio. A ponente il sole

si ferma. A sera ponente diventa 

lo spazio unico del pensiero. Al pensiero 

ammalato di libertà e di benzene 

chieda un commediante la cosa precisa

che ghermisce senza precisione tutte 

le nostre assenze. Per strada e al circo 

e tra lenzuola piagate cerchiamo 

schermo e appigli e infine un appoggio

sui soffitti ennesimi. Portiamo l’invidia 

al vento: non è nostro uno scorrere

perpetuante. È nostro il tenere a cella

blindata le blindature del quadrato 

la colpa che non s’arresta al lirismo

della cesura. Troppi io per tornare 

a capo e gioire sulle scottature del 

rischio e morire sulle sbucciature del 

nato. Siamo noi quel matto che segna 

l’adunanza, che si segna 

un richiamo sul polso con il rasoio

identico. L’identico male per una

malefatta scritta nel tempo. Siamo

noi in un unico corpo a parlare 

dei fratelli che abbiamo perduto.

Nella dieresi il fatto di tutti i tormenti. Nei 

tormenti siamo noi con la nostra rarità 

di esser coro. Coro sanguigno come

un frutto e un clacson questo partire

per una meta che è metà 

della fionda per cui la pietra raggiunse

i cuori appesi sui balconi dell’infanzia.

Nel parco i gatti bevono dalle pozze

di sangue e il sangue trattiene

l’immagine del nostro orgoglio

il quisquam che fugge l’esatta

definizione.

Non venitemi a raccontare degli anni

attaccati agli anulari come anelli rari.

Vorrei che questi campi si mietessero 

con la puntualità del vedovo

contadino e senza prole. Senza 

estate e con dovere

come è degli angeli e dei custodi.

Sempre triste il fanciullo si declina

con mai stata giovinezza nel cuore. Nel 

caos imprimo ritmi a figure. Fermo 

dischi stralunati nei più avidi terricci

di contraddizioni. I marinai son nati 

per vegliare il dolore azzimo del 

giorno. I benzinai sono fantasmi 

che ingoiano il carburante. Più geometrie

deridono gli antichi e più risate fanno

male. Vedo alberi goffi e colli neri

con l’esigenza di patire. Porti

e abachi tatuati sulle mancanze. Darsene

vacue sulle convessità dei nidi. Nidi

in lacrime sulle rocce del Sinai. Il Sinai

inginocchiato su di me.

Altre volte, invece, c’è solo un padre

così esatto nella vecchiezza del volto

che il verso dispera tutti i compimenti.

Non venitemi a raccontare degli anni

attaccati agli anulari come anelli rari.

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