Possa il cielo arrotondare il nostro
dolore senza fine. Possa arrotondare
il cielo l’arrotino col suo furgone
spento. Possa arrotondare il cerchio
anche la povertà degli ultimi nel cielo.
Nel voltaggio fra le dita nel volteggio
resiste un fluorescente filo, filare
con un drago d’Oriente nel petto
e levante è il punto d’attacco del
nostro desiderio. A ponente il sole
si ferma. A sera ponente diventa
lo spazio unico del pensiero. Al pensiero
ammalato di libertà e di benzene
chieda un commediante la cosa precisa
che ghermisce senza precisione tutte
le nostre assenze. Per strada e al circo
e tra lenzuola piagate cerchiamo
schermo e appigli e infine un appoggio
sui soffitti ennesimi. Portiamo l’invidia
al vento: non è nostro uno scorrere
perpetuante. È nostro il tenere a cella
blindata le blindature del quadrato
la colpa che non s’arresta al lirismo
della cesura. Troppi io per tornare
a capo e gioire sulle scottature del
rischio e morire sulle sbucciature del
nato. Siamo noi quel matto che segna
l’adunanza, che si segna
un richiamo sul polso con il rasoio
identico. L’identico male per una
malefatta scritta nel tempo. Siamo
noi in un unico corpo a parlare
dei fratelli che abbiamo perduto.
Nella dieresi il fatto di tutti i tormenti. Nei
tormenti siamo noi con la nostra rarità
di esser coro. Coro sanguigno come
un frutto e un clacson questo partire
per una meta che è metà
della fionda per cui la pietra raggiunse
i cuori appesi sui balconi dell’infanzia.
Nel parco i gatti bevono dalle pozze
di sangue e il sangue trattiene
l’immagine del nostro orgoglio
il quisquam che fugge l’esatta
definizione.
Non venitemi a raccontare degli anni
attaccati agli anulari come anelli rari.
Vorrei che questi campi si mietessero
con la puntualità del vedovo
contadino e senza prole. Senza
estate e con dovere
come è degli angeli e dei custodi.
Sempre triste il fanciullo si declina
con mai stata giovinezza nel cuore. Nel
caos imprimo ritmi a figure. Fermo
dischi stralunati nei più avidi terricci
di contraddizioni. I marinai son nati
per vegliare il dolore azzimo del
giorno. I benzinai sono fantasmi
che ingoiano il carburante. Più geometrie
deridono gli antichi e più risate fanno
male. Vedo alberi goffi e colli neri
con l’esigenza di patire. Porti
e abachi tatuati sulle mancanze. Darsene
vacue sulle convessità dei nidi. Nidi
in lacrime sulle rocce del Sinai. Il Sinai
inginocchiato su di me.
Altre volte, invece, c’è solo un padre
così esatto nella vecchiezza del volto
che il verso dispera tutti i compimenti.
Non venitemi a raccontare degli anni
attaccati agli anulari come anelli rari.