Canto I
Stadio Larvale
Il sole maturava la sua decaduta,
era sera, il pavimento, prima argentato,
diveniva ombra.
Sulla strada grande dell’Est,
alle spalle della morte
un uomo curvo mi vide sogghignare:
era l’ultimo cielo umano,
l’ultimo tramonto
e di lì a poco, solo cosmo,
solo nero, buio.
Ed ecco, l’uomo curvo ancora rinasceva,
gli chiesi: “sa forse parlarmi della sua vita?”
Egli non rispose, si chinò ancor di più
così come inchina la fame:
come lombrichi.
Decadeva, non solo la luce,
persino i nostri occhi.
In quell’oggi divenimmo tutti ciechi.
E finalmente riuscimmo a vivere Babilonia!
Adesso, nelle violente iridescenze del creato,
adesso, potevamo scorgere il boato finale.
L’apocalisse? L’ultima sventura?
No, solo la giocosità degli uomini
e ancora, una fine senza fine.
Camminavamo su oceani di tempeste,
vedemmo l’Angelo Furioso.
Ad ogni nome, la Morte.
Era la pace nella guerra.
Non disse mai il suo nome,
volle solo il nostro denaro.
Ed era così bello che guardammo oltre.
Ancora un’isola.
Né Rimbaud, né Milton ci furono d’aiuto
ad ogni sospiro, ci sputavano in un occhio.
Chi la gloria vuole ottenere, fino al basso deve navigare.
Così facemmo.
Così l’Angelo ci vide fare.
Fino a rimanere ciechi, finalmente sordi.
Quanti erano i dannati in questa linfa?
Quanti gli sgradevoli voluttuosi?
Quanti Ulisse che perdevano la città maestra?
Perché Itaca è ancora nel genio,
e Penelope è invecchiata e decaduta.
Non abbiamo capito, forse non abbiamo voluto.
Io canto perché sono morto,
e canto di voi, di tutti noi, morti galleggianti
e canto delle generazioni senza volto
e canto delle foglie d’un unico albero appassito.
Canto di questo autunno e del futuro risveglio.
E quindi canto al tramonto stesso
di questa stessa vita.
E tali sono le storie che lascio
prima del costante –sempre eterno- dove.