Davide Galipò – Tre poesie da “Istruzioni alla rivolta”

diserzione


Non c’è diserzione nel crudo paesaggio
di corpi arrostiti sul bagnasciuga
nel giro di boa alla prua dello scafo,
buio scafandro con cuore di uomo.


L’umanità trabocca: il palombaro,
stagliatosi all’orizzonte, presenta
sul casco il riflesso ramato del cielo:
presagio di giorni migliori a venire.


E in certe sere i tuoi gemiti tacciono
mentre – gioioso – deflagro l’imene
al pensiero del prossimo giorno
e le nostre pelli sudate arrossiscono.


Aggiungo, pensoso, che non c’è lingua
del mondo che non si faccia, poi,
sentimento, canale preferenziale
glicemico nell’aorta rigonfia di bile.


Chiamiamolo con il suo nome:
chiamiamolo stupro, chiamiamola
ustione o “sete di prevaricazione”
oppure esautoriamolo: chiamiamola


pancia, sanguigno amor patrio,
caratteristica della nazione, padre
amorevole, sorriso di madre, divino;
chiamiamolo dio, che vede e provvede,



malsana voglia di non progredire,
ché l’eccesso di mutazione provoca
crisi d’identità e intossicazione alimentare;


torniamo ad essere, oh italianissimi,
schifosamente noi stessi.

*

l’acredine


Le cicche di sigaretta nel posacenere
formano un piccolo tempio, diroccato
cimitero degli elefanti, in corsa
le automobili sfrecciano per celare
la pinguedine dei sogni degl’uomini
e se la macchina è una donna
– come scriveva D’Annunzio –
io me l’immagino, quest’uomo
della provvidenza, correre nella notte
nera, che attende di essere a bordo
della sua cara e devota Chevrolet
per piangere calde lagrime di vita.
Bevendo l’amaro dell’alba,
so poi si ritrova seduto in salotto
alle quattro, con la sigaretta spenta
tra le mani a contemplare
la sua scultura d’acciaio e pelle;
ricomponendosi dopo una serata stanca
egli ride, pasturando l’ultimo sorso
di vino scadente dal balcone, sapendo
che solamente quando sarà ricongiunto
sarà pieno e l’acredine potrà abbandonarlo,
come statico quadro astratto e consunto
appeso a muro; soltanto allora sarà umile,
soltanto allora potrà dirsi uno.

*

il dono


Beata tenace magnifica ignoranza,
tu che riesci a stupire i cuori semplici,
a far breccia negli avverbi,
lasciando bocche attonite e fedeli,
abbandona, per un attimo,
queste menti, falle correre libere,
scandagliale nel silenzio,
fai avvertire loro il brivido
d’un fugace desiderio
– non di pessimismo cosmico
o scenari apocalittici –
ma orizzonti sconfinati, praterie;


ora al pascolo, le bestie
non s’immoleranno dalla trebbia,
riunendosi in assemblee
e ‘l paese sfilando per le vie,
costringendo i macellai,
con sguardi accigliati e bovini,
a servire carne umana
per contentar la fame dei consimili.


Nell’ora in cui la bocca
solleverà dal fiero pasto,
con denti sporchi e mani insanguinate
a rosicchiare la polpa dalle ossa,
l’umanità tutta udrà il grido
per ciò ch’è stato fatto.


Allora, dolce oblio, tornerai
a ottenebrare le coscienze,
una pietosa ombra
stenderai sui loro sogni

e quando, ridestandosi dall’incubo,
saranno grati al buon destino
per non essersi compiuto,
guarderanno al nuovo giorno,
tracotanti d’innocenza.


Quale zelo, quale grazia,
questo dono.

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