Il mercante d’armi
Il deperimento delle cose
come una lebbra antica che passa e che rovina
L’inverno furioso si scaraventa sulle balconate
ne muove i ferri come fossero banchi d’alghe.
Ci perderemo come i pensatori del deserto
che scavalcano staccionate di sabbia
pensando alle brillanti navi di Acapulco
disarmate e senza schiavi.
Ho atteso per molte notti lo stesso sogno
era l’uomo magro con la valigia di cammello
che mi portava mercanzie importanti
Era l’uomo che aveva conosciuto il Pacifico
e visto muoversi donne flebili dietro le tende di Manila
sulla via tortuosa del commercio e della guerra.
Ho atteso ogni notte lo stesso sogno
ma venne il sonno nero senza occhi
e la luce malevola della lanterna ad olio del mercante d’armi
che immobile su una seggiola
lucidava il fianco di una spada
E così rimase Memoria
sguaiata e tiepida
come l’amore senza perdono.
*
Nessuno dimora
Guaderemo il fiume, nel tempo severo del marzo
procedendo muti e senza espressione.
Mi dicesti non c’è rimedio
e volgesti lo sguardo verso la pietra,
nessuna attesa, e il tempo si mise di schiena.
E invece guaderemo il fiume, come animali stanchi
passeremo il confine
mostrando il segno del morso dietro la schiena
nel tempo severo del marzo
il tuo marzo stanco, senza rimedio
Ci duole la schiena, curvi alla foce
alla foce ventosa, scossa da uccelli
noi chini alla foce, scardinati dagli anni
minute figure, minute come l’aratro
e come il secchio
nella sconfinata campagna, oltre il confine
tornando dove ricordavamo casa
la casa smarrita, contratta sotto le polveri
Rammaricato alla finestra, tenuto alla fune
come impiccato
il tuo vestito di lino
quello che indossasti per la festa, sbottonato alla gola
per soffiare il clarino e l’armonica
prima del fiume, prima del marzo.
E adesso che non credi più
a nemmeno una voce
e nemmeno ti volti a guardare
il nobile lino scolora
e nel paese estinto
se ne vanno i vecchi languidi
seguiti dal tempo che incensa le strade.
*
Gli occhi di Ivàn
Non esistono azzardi Isidora
è solamente il tempo che ci perisce
benché ci pensammo giunchi
irresponsabili sotto il peso dell’acqua
Abbiamo corso sui gomiti, sui palmi delle mani
e sui ginocchi
una catechesi feroce tra noi e la strada
e lo sguardo di tua madre, a cui non si ebbe accesso,
immacolato come un feretro cristiano
Mi hai raccontato di Lui
che ebbe per te lo stesso peso di una morna
e lo cantasti e ricantasti, trasfigurato
come se non dovesse finire mai
l’azzurro nebuloso dei suoi occhi
che solo quello il ricordo salvò
il resto in pasto alle stagioni
veloci come cani da slitta
Te lo portasti dentro come una nenia,
tua madre non sapeva,
e ne amasti i tratti
con la solitaria passione dell’uccello feroce
destinato al suo esilio di rupi
Non esistono azzardi mia bella
è solamente il tempo che ci monda
in questa irriducibile primavera
e ci consegna come ostie nelle bocche dei credenti
E ancora il ricordo tremendo
della sua pelle bianca
quando al confine con Palanga
si rinserrava austero nella piccola giubba.