T’ho visto, una volta,
affacciato al finestrino,
indifferente alla ressa dei saluti.
Mi parve che qualcuno
ti chiamasse Artù o Arturo,
il fanciullo dalle scarpe di vento.
*
Ho una lama assestata al centro
della tensione, ci sono abituato;
tanto che, ogni tanto mi distraggo pure
dal dolore, guardo fuori, mi sembra sia
ancora primavera.
*
Specie d’inverno, con le giornate di
magro sole che sembra dal di fuori
l’erbe vogliano rinsavire in un coro unico –
i pilastri di cemento lasciati a marcire
abbiano un solo voto di solitudine.
Il cielo è imbrinato dalle macchie
sui vetri. Ti chiedi come fronteggiare
questo mutamento del cuore, questo
cambio d’umore che rischia di restare
l’unico blocco parlante dai fondi
umani che insistono a trasecolare.
*
Traduzioni da Ķavafis
Delirio
È un palazzo enorme, in cui ognuno pone
un suo mattone: siano parole, giudizi severi,
fatti. Cresce il progresso quotidianamente.
Ed anche qualora si scatenasse tempesta,
o la furia marina, interverrà chi del mestiere
vorrà garantire che l’opera stia in piedi.
Ma non ne garantirà lunga durata:
ognuno sa come sprecare in patimenti
e privazioni la propria esistenza.
Si vorrebbe garantire un domani senza
dolore, magari allungare la vita a chi verrà
dopo, e che abbia ricchezza, doni dell’intelletto,
tranne a pensare mai come ciò fu guadagnato,
con quali sudori, quale lavoro senza corrispettivo.
La verità è che ai posteri non resterà granché.
Questo delirio sarà la rovina dell’edificio.
E ci sarà tempo per sfiancarsi senza dignità.
*
Mostri le tue labbra
come ottusa ferita –
ti credi elegante
impunibile,
figlio del tuo tempo,
inattaccabile.
Ma quando sorridi,
sveli i tuoi
molari cariati.