Smettendo di essere me smettevo le abitudini
senza sapere ciò che di me fosse più vicino
al vero o alla menzogna.
Ad un canto risponde un controcanto
udibile appena nelle acque del sogno,
sono leggi che il caos non può mutare.
Ci chiamano specchi
di un’immagine mai esistita e subito estinta
sorta appena dalle ombre che rischiarano gli stagni.
Se dentro la geografia dei nostri passi
sia da cercare il confine di una felicità
che sfiora il bordo per un’altra infelicità, più certa,
più duratura;
tacita parola: tu non la sai trattenere nè barattare.
Nascosta come un seme, da essa nasceranno
le finte piante, gli alberi muti del nostro domani:
i soli che abbiamo.
In questa liquida attesa che fa della luce un solco
cui si ritorna come una promessa
quando la voce diventa assenza
potenziali assassini l’uno dell’altra
lì, io mi attendo: rinata, quasi.
*
Dicevano che presto avrebbe piovuto
e immaginammo che l’acqua lavasse via
gli ultimi accenti stranieri rimasti.
Ma anche la scienza vive di miti inganni;
poche nuvole all’appello serale.
E mentre le more avvizzivano in mezzo ai cespugli,
nascevano ninfe dal verde dei boschi,
ed ero corteccia anch’io, al pari loro.
A lungo restammo ignari
delle foglie su cui camminavamo:
non conoscevamo né il tempo né la stagione
per dire se fosse presto o tardi tra noi.
*
I verdi si equivalgono, i gialli
ricordano altri gialli ancora.
Non voglio appartenere a cose già viste, né
entrare per sbaglio nella serie degli errori.
Una bocca rimane, rossa,
mentre fuoriesco dal quadro.