Giovanna Cristina Vivinetto – Poesie da “Dolore minimo”

La prima perdita furono le mani.
Mi lasciò il tocco ingenuo
che si addentrava nelle cose, le scopriva
con piglio bambino – le plasmava.
Erano mani che non sapevano
ritrarsi: mani di dodici anni,
mani di figli che tendono al cono
di luce – che non sanno ancora
giungersi in preghiera.
Mani profonde – come laghi
in cui nessuno verrebbe a cercare,
mani silenti come vecchi scrigni
chiusi – mani inviolate.

La prima scoperta furono le mani.
Ricevetti un tocco adulto che sa
esattamente dove posarsi – mani
ampie e concave di una madre
che si accosta alla soglia ad aspettare;
mani di legno e di fiori
di ciliegio – mani che rinascono.
Mani che sanno aggrapparsi anche
all’esatta consistenza del nulla.

*

Non ho figli da dare – non potrò.
Non ho tube che si gonfiano
né ovuli da spargere per il mondo.
Non ho vulve da tenere fra due
dita – da schiudere tra le valve
delle gambe non ho niente.

Ma lui mi sfiora, continua a toccarmi,
a perlustrare con le dita questo
corpo imploso, risucchiato tutto
all’interno – fuggito senza lasciare
tracce. E lui persiste a sfiorarmi
per trovare il punto che possa
dargli piacere. Che possa
consolarlo, farlo sentire uomo.
Non glielo dico, ma non c’è.

Eppure tutta questa sua goffa
illusione, quest’avventatezza
nel proiettarsi verso il dato certo
per un attimo mi restituisce
tutto ciò che mi manca – e al suo miracolo
questa sera mi faccio donna.
Completamente.

*

Era come avere dieci anni
scoprire il gioco delle forme
sotto le pieghe del maglione,
il gonfiore nitido dei seni
doloranti il lunedì mattina
e chiedersi il perché.

E forse si tornava bambini
nell’immaginare allo specchio
le traiettorie di vite future,
le tracce sul corpo adolescente
di un sotterraneo divenire.

Così all’età di vent’anni
il mio corpo ne mostrava dieci:
dieci i piccoli seni,
dieci i fianchi sottili,
dieci le mani mai quiete
in puerile agitazione,
dieci i sessi atrofizzati
incapaci a un tratto
di evocare desiderio.

Era un rimettersi in gioco
di subdola perfidia
sconvolgere tutti quanti i piani.
Cambiare all’improvviso guardaroba.
Imparare a truccarsi a vent’anni.
Avere dei tacchi a ventuno.
Dubitare di sé a ventidue.

Tornare poi allo specchio
e scoprire che qui, proprio qui,
sotto questi seni e questi fianchi,
dietro la maschera di trucco
e dentro i tacchi alti
qualcuno qui c’era,
per un po’ c’è stato
e poi all’improvviso
non è stato più.

Desiderare infine
di avere dieci anni
per ricominciare da capo.

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