Marthia Carrozzo – Poesie

“Sherazade concept”, Marthia Carrozzo 2012,
Primo Classificato al Premio Nazionale di Poesia Inedita “Ossi di Seppia” – XIX Edizione

Sherazade

Le tue mani.
Le tue mani, ora.
Le tue mani.
Le tue mani,
ancora.

Il calco perfetto del tuo segno.

Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.

Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la braccata bellezza dei miei nervi a fiorire.

Promulgare il nitore dagli occhi
e dai pori, dai pori, più ancora.
Tutti i numeri, a dire il piumaggio.
Il tratteggio dei denti, sottile, a cucire.
Il tuo cibo, in bocconi più brevi, in più piccoli sorsi di me.

Fatti bocca, per mordermi ancora.
Fatti aria, per farmi annaspare.
Fatti peso che schiaccia il mio peso,
senza forza, violenza, né male.

Fatti inverno per farmi tremare.
Fatti solco, voragine, apnea.
Fatti assenza che brucia lo sguardo,
tira i tendini fino a
colmare.

Fatti carne che è inversa alla carne.
Fatti lupo, nel nome, a smembrare.
Fatti siero spremuto dai polsi
per legarmi pur senza legare.

Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.

Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la sbrecciata bellezza dei miei nervi a sfiorire.

Che le mani non bastano, ora.
Che le mani non bastano, ancora ed ancora.
Che le mani, le mani non bastano ed
ora.

Che nel Libro del senno è già scritto,
conficcato ad uncino tra i seni.

Che a cercarti non servono gli occhi
Che a cercarti non servono gli occhi ed ancora
Che a cercarti non servono gli occhi, che
ora.

Che il cifrario si tasta alla schiena.
ogni lettera, in braille, sotto il derma.

Che il tuo tornio sa bene il mio dazio,
che mi danza, mi impasta, ma cieco.

Che le Tavole stanno alle reni,
proiettate a vettore di ali.

Ch’è il tuo fiato che incide e le forgia,
se mi scuci, svuotata, se stai.

Che la Legge, la tua, mi è già impressa al midollo,
se mi scavi, artesiana, mi fai.

Di pane in pane, di pane in pane ora.
Di pane in pane, di pane in pane, ancora.

Di pane in pane,
i polpastrelli, come in branco,
la svelata bellezza dei miei nervi a gemmare.

Promulgare il nitore dai bulbi
e dai pori, dai pori, più ancora,
le tue impronte, a tradire il piumaggio,
le vibrisse di fiato, sottile, a cucire.
Il tuo cibo, in bocconi più brevi, in più piccoli sorsi di me

Fatti mare, per mordermi ancora.
Fatti tempo, per farmi annaspare.
Fatti leve, di contro al mio peso,
senza attrito, prudenza, né male.

Fatti terra per farmi tremare.
Fatti crepa, poi sisma ed apnea.
Fatti bianco che brucia lo sguardo
e ricontami fino a
colmare.

Fatti carne che versa la carne.
Fatti lupo, nel verso, a sacrare.
Fatti siero rappreso nei polsi
per guidarmi pur senza guidare.

Fatti fame, per farti trovare.
Fatti spazio, per spingerti ancora.
Fatti piano che assorbe la luce,
senz’attese, distanza, né male.

Fatti nasse per farmi arenare
Fatti eco, scandaglio ed apnea
Fatti notte a covare lo sguardo
E raccontati
fino
a

*

Corpostregone

Possiedi me, si, mi possiedi, e per intero.
In te di me, scomposta in granuli di luce.
Possiedo te, si, ti possiedo, ma con cura.
Ti porto dentro, porto stesso del tuo mare.

Si fa stregone, il corpo, detta, sa il respiro.
Mantice esatto che mi inscrive le parole.
A farmi liuto, le tue mani alla colonna,
ad ogni vertebra che tocchi sboccia un fiore.

Alla sorgente del mio fiato, la tua bocca.
Preme il diaframma, muove, inviva ogni mio scatto.
Presa di nodi attenti e nervi tesi,
tastami tu, modella il pentagramma.
Dammi la voce, acchè ti riconosca.
E riconoscila per primo, va a memoria.

Possiedi il collo, fanne giunco alle tue dita,
Possiedi me reclina e docile al tuo sguardo.
Possiedi il viso che mi inquadri e le mie labbra.
Possiedi gli occhi, serra in gola il sillabare.

Togli il dolore, tutto. Togli. E togli i giorni.
Ricuci il tempo che ora dissipa l’attesa.
Possiedi ogni ora, le clavicole, la chiave.
La cassa armonica che allarga tra i miei seni.

Conosci il cuore, sgrana piano, carda il male,
districa il vero che tu sei nell’ossa e prima.

Possiedi, l’arco che ti cinge, delle braccia.
La resa molle che le strema e le abbandona.

Possiedi l’unghie che ora infiggo al tuo cercare.
La linea incisa che ti trova sul mio palmo.

Possiedi il ventre che tambura il nostro affanno.
Sommuove l’oro di fondali da venire.

Possiedi il ventre ed entra, resta, per osmosi.
Cedi da poro a poro la cornice.

Si fa stregone, il corpo, detta, sa il respiro.
Mantice esatto che mi inscrive le parole.
A farmi liuto, le tue mani alla colonna,
ad ogni vertebra che tocchi sboccia un fiore.

Alle mie pelvi abecedizza la bellezza,
nomina, esprimi, premi, esegui il nome.
La lingua cerca, prova ancora il suono estratto.
Ne saggia il timbro che distingue il cielo inverso.

Possiedi il nugolo che chiama mare grosso
Ogni granello della pelle che mareggia.
Ogni mia apnea, possiedi e i sorsi a quella altezza
Che è dei delfini e degli amanti fatti paghi.

*

Nel tuo seme (Tarab)

Domani, o domani l’altro, o l’altro ancora,
restituirò all’intero ogni parola.

Domani, o domani l’altro, o l’altro ancora,
ricucirò la pelle d’ogni ora.

Domani, o domani l’altro, o l’altro ancora.

Domani, o domani l’altro, o l’altro ancora,
riaffiorerà, scritta in braille, dai polpastrelli.

Domani, o domani l’altro, o l’altro ancora,
spalancherà, ed in vece nostra, tutto il vero.

Domani, o domani l’altro, o l’altro ancora.

Domani, o domani l’altro, o l’altro ancora,
la scriverò, la mia poesia perfetta.

Quella che ha avuto inizio dal tuo seme,
la prima volta che hai forzato i miei sigilli.

Quella che, dal tuo seme, mi ha iniziato,
ancora prima che il mio corpo fosse Fato.

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