Mi hai detto rinomina il mondo
come il primo uomo, pronuncia il gusto
all’infinito, dì il nome del frutto.
Io ogni cosa chiamo ognuna genero
e sono dio nel mio chiuso giardino
e questo è il mio figlio prediletto
che ho dato in cibo al lupo. Questo
che ne rimane lo impasto di nuovo
io, qualche decina di amarene
mi covo nel grembo. Per voi preparo
un pane in dono, minuscolo e agro.
***
Il custode dei prati viene a dire
del gregge, che è più in là verso i ciliegi.
Che ci dovremmo avvicinare, gli occhi
chiari, alla carità dei piedi nudi
di chi ancora chiama per nome il campo,
l’animale e se ne ciba.
Non verrà però la neve, non coprirà il pane
non si placherà il morso della fame –
la strada perderemo per tornare
a casa, la casa dimenticata al cantiere.
La lingua, come un guanto.
***
Le parole del mattino ripetute all’orecchio
io ti amo, ripetute al mattino all’orecchio del sonno
nell’ultimo anfratto del sonno, deposte nel cavo
grembo di ogni equilibrio e di ogni memoria. Le parole
io ti amo del mattino mandate a memoria, ripetute
e ripetute, depositate come un monile d’argento
nel cavo – delle nostre mani abbandonate, dell’orecchio –
nel sonnolento cavo della logica, nel tempo
ancora cavo del mattino, dentro – minimo embrione
d’argento, ciondolo di profezia e fortuna – Io,
io ti amo, le parole ripetute nel tempo, le antiche parole
madre e padre del tempo, ripetute al mattino all’orecchio
nel sonno del tempo, nelle profonde cavità senza suono.