Ettore Fobo – Prose poetiche

FETUS LA MASCHERA

I

In fondo è sempre una questione di codice, laddove per codice io intendo la maschera e maschera è ciò che dà la visuale sul mondo, su se stessi, il proprio occhio profondo. Ho detto visuale, ma avrei dovuto scrivere visione. Come il poeta di haiku che si sogna farfalla, e dice:
“Ma sempre incombe sulle nostre farfalle filo spinato elettrificato.”
E
“Ho visto una rondine dibattersi fra i rovi straziata, nell’indifferenza cieca della strada.”


II


Questa è realtà, la struttura delle cose, noi come cani di paglia gettati nel fuoco, alla fine di una cerimonia in cui ci sentivamo sacri.
È la dispersione il segreto della struttura, una struttura esiste per disperdersi, vale a dire: tutto ciò che è cristallizzato si rompe. Il codice no, il codice-maschera è già un’interazione fra sé e l’altro.
Ma quando dico struttura, dico bramosia dell’unità, quando dico maschera, dico che la miriade degli esseri è una mia sintesi ipotetica, amo il caos in ogni sua non forma. Non possono vietarmi di essere anche il negativo di me stesso.
Io, l’altro … la maschera è il punto di congiunzione, tutte le galassie occhieggiano con la loro meravigliosa mancanza d’unità, di centro.
Come il poeta beat che disperde il suo fiato nel vento, che urla su tutti i tetti: “Catastrofica è la Notte ma io grido la mia felicità conto un cielo divino troppo sprofondato e m’inchino al ghigno strafottente del sassofono”. Ha indossato la maschera del cherubino angelico, perché le sue voglie erano troppo demoniache: dicono che così le abbia placate.


III


Tutta la carne sigillata in un’epopea di facce pitturate, danze dissennate per via dell’oppio, ”voglio vomitare“ gridato alla mattina in faccia alla metropolitana ”Benvenuti in Patologia” e poi pensare che tutto sommato sottoterra sia proprio da formichine demoniache. Si rimanda la realtà a data da destinarsi, ma questo non è un sogno, sognare è da stupidi, questa è la nostra primitiva destrutturazione, articolata in paesaggio interiore in cui specchiarsi. È l’eco della parola oblio, che tu cerchi? Per indossare facce più definitive, immateriali, come tutto ciò che è stato Feto.
Privo di volto, privo di essere, senza sostanza, fuggevole e fuori dal tempo, in una parola, eterno.
Ecco l’ultima maschera, l’atman, il sé atomico, il multi verso e l’anello degli anelli. L’innocenza del silenzio e del divenire. Domani potrebbe essere già il sogno di un’altra maschera, indossare l’altro, il dio, l’alieno, il lontanissimo dentro lo stellato.
Ma poi torna la realtà, con il suo grugno di Arimane, con la sua strutturazione sociale, gabbia della Verità, volto nudo al sole senza amore. Allora fingo di essere un serpente per sgusciare oltre tutte le sue classificazioni. È come non fossi nato, un’ipotesi di materia pulsante soltanto e allora anche la morte è una finzione.
Io sono qui, se perdessi le maschere, questa nozione mi ucciderebbe, ciò che ho creato qualcuno lo chiama me stesso. Io non posso che vedermi traslato, nell’antichità dello specchio.

*

IL SOGNO DEL LETTORE


Passeggio con Borges lungo una biblioteca infinita nei cui libri sono custoditi tutti i segreti, insieme svelati e inattingibili, criptati . Con un bastone nodoso Borges me ne indica alcuni. “Non furono mai scritti”, mi dice con il suo tono indolente ”Rimasero fantasticherie sul burrone di qualche crepuscolo, a Tangeri, Los Angeles, Stoccolma, Nairobi; ovunque l’immaginazione abbia cospirato contro il reale, questo monumento all’ovvio.”
Borges la cui cecità è un simbolo omerico e inesplicabile si muove con la calcolata lentezza di uno ierofante o di un samurai. Io vedo fugacemente in uno specchio – perché accanto a lui tutto è specchio – torcersi la tormenta di un’adolescenza punita con il deserto. Borges… La nostra amicizia è pressoché muta, alimentata dai segni che altri scrissero non per noi soltanto ma per tutti o per nessuno. Finché l’occhio che dall’abisso scruta ogni sogno si chiude e mi sveglio.
Borges torna a essere l’ombra in un Ade in cui la parola ha le vertigini che il silenzio le concede. Borges, che fine hai fatto? In quale specchio sei sprofondato, in quale labirinto hai smarrito la tua ombra, in fondo così metafisica? Tu, che abiti ogni libro come custode del segreto e del vento serotino che infiamma la Pampa. Chi altri saprà ora decifrare i tremendi silenzi degli specchi?
E all’improvviso so che i posteri sono un sogno e che tu, Borges, sarai per loro un enigma che solo l’oblio saprà svelare.

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